Fin quando è durata, la mia adolescenza è stata eterna.
Prima di allora, l’infanzia era stata permeata, come tutte le altre infanzie, da quell’atmosfera di semi-incoscienza, di foschia, durante la quale viviamo ma non ci accorgiamo bene di quello che accade, in cui ogni giorno ci imbattiamo in novità e in nuove esperienze che insegnano qualcosa in più della vita. Diciamo che l’infanzia è un periodo di “training”, una sorta di apprendistato che ci introduce alla vera vita.
Quella vita vera che pensavo di avere ormai raggiunto nell’adolescenza, durante la quale le mie giornate si susseguivano identiche le une alle altre: mattina a scuola, poi a casa per il pranzo, quindi un po’ di studio e svolgimento veloce dei compiti, e poi via a giocare a calcio con gli amici, nel cortile condominiale o nel campetto di fronte. Quindi a casa per la cena, un po’ di televisione e infine a letto. Ogni giorno la stessa cadenza quotidiana, sei giorni alla settimana esclusa la domenica (eh sì, ai miei tempi c’era scuola anche il sabato). Ma anche le domeniche erano tutte uguali. Messa alla mattina, poi a casa per il pranzo e quindi, nel pomeriggio, il momento clou di tutta la settimana: radio sintonizzata su “Tutto il calcio minuto per minuto”, per seguire le partite del campionato, che erano allora tutte rigidamente in contemporanea. Per lo più iniziavano alle due e mezza, durante l’inverno (in primavera, con le giornate più lunghe, un po’ più tardi), ma alla radio si potevano seguire in diretta solo dal secondo tempo, quindi l’appuntamento sacro per me iniziava alle tre e mezza. Di solito a casa insieme a mio padre, attrezzato con carta e penna per annotarmi formazioni, gol, marcatori, man mano che venivano annunciati dai radiocronisti. Nelle belle giornate però seguivo le partite più spesso fuori con gli amici, giocando a calcio a nostra volta, con la radiolina a tutto volume posta a terra di fianco alle giacche, pali improvvisati di una porta immaginaria.
Era dunque un susseguirsi di giornate sempre uguali, anno dopo anno, in cui le brevi estati erano solo un piacevolissimo intermezzo tra un anno scolastico e l’altro, anzi tra un campionato di serie A e l’altro. A settembre, col nuovo anno, più che conoscere quale nuovo compagno (o compagna) si sarebbe aggiunto alla mia classe, mi incuriosiva di più sapere come si sarebbero comportate in campionato le nuove squadre neo-promosse dalla serie B.
Per me la vita era quella: il futuro me lo immaginavo come un grande schermo davanti a me, sul quale si proiettavano esattamente le stesse scene, ma un po’ più distanti: scuola, compiti, partitina, cena, TV, campionato di calcio alla domenica... Anche la percezione del tempo che avevo allora era quella di un’eternità immutabile. La mia adolescenza è stata lunghissima e nella mia memoria occupa uno spazio enorme, non proporzionato al numero degli anni che ho - effettivamente - vissuto. Quegli anni erano davvero lenti, solo dopo si sono messi a correre sempre più velocemente. Sì certo, sapevo che un giorno sarei diventato adulto, che la scuola sarebbe finita, che avrei cominciato a lavorare, forse mi sarei (addirittura) sposato e avrei avuto magari persino dei figli. Ma quella era un’altra vita, un’altra realtà che si sarebbe probabilmente avverata ma senza che sapessi bene né come né quando.
Poi un bel giorno l’adolescenza è finita. Anzi no, mi sbaglio: non è finita in un giorno. Oggi mi sembra che sia scomparsa all’improvviso, ma nella mia percezione di allora si è dissolta a poco a poco, senza che me ne accorgessi, perdendo ogni tanto un pizzico di quella spensieratezza e incoscienza e aggiungendo in compenso ogni volta un po’ di responsabilità in più. Ma poco poco, impercettibilmente, come faceva Mitridate col veleno.
Dalla scuola media sono passato al liceo, poi dopo l’esame di maturità ho iniziato a sostenere gli esami universitari, ma sempre con lo spirito dello studente spensierato. Ma mentre il campionato di calcio cominciava a interessarmi sempre meno, spendevo anche sempre meno tempo con gli amici, qualcuno dei quali iniziava a non farsi più vedere, quindi anch’io ho cominciato a diradare le mie uscite, ma sempre con una sensazione di temporaneità, con l’intenzione comunque di ricominciare un giorno, pensando ogni volta che “sospendo un po’ per adesso, che ho un esame importante, ma poi riprendo”.
Quelle sospensioni diventarono sempre più frequenti, sempre più lunghe, finché poi a poco a poco quel campetto, quegli amici, quelle stesse strade intorno a casa divennero - chissà come - solo un ricordo del passato.
E qua mi fermo coi ricordi personali: niente panico, dunque, non ho l’intenzione di raccontare qui la storia della mia vita! Essendo peraltro migrato nel frattempo dall’Italia al Belgio (e, ancora prima, dagli Stati Uniti all’Italia), ho voluto comunque prendere un po’ spunto dalle mie vicende personali per riflettere su quanto sta accadendo in Europa e nel mondo in questi giorni. Stiamo assistendo ad avvenimenti che ci sconcertano: da un lato migrazioni bibliche di popoli in fuga da guerre, alla ricerca di un rifugio, dall’altro attacchi terroristici che sconvolgono buona parte del mondo e che ora stanno colpendo proprio qui, a due passi da casa nostra. Le guerre da cui fuggono i profughi sono per lo più le stesse che alimentano e coltivano il terrorismo; si tratta quindi di eventi strettamente collegati tra loro, come spesso accade nella storia delle popolazioni.
“L’Europa travolta da ondate di rifiugiati”; “Le nostre città invase dai profughi”; “La civiltà dell’Occidente minacciata dall’Islam”: sono allarmi che si sentono sempre più spesso. In qualche caso numeri e pericoli vengono manipolati, anche per propaganda politica, ma resta il fatto che, comunque la si pensi, stiamo assistendo forse davvero ad un mutamento della nostra società, probabilmente epocale.
Ma è la prima volta che accade? Davvero siamo (o eravamo) convinti che lo “status quo” nel quale ci eravamo adagiati negli ultimi tempi sarebbe durato per sempre, che fosse la conclusione definitiva, la “fine della Storia” (per dirla con Francis Fukuyama)? O non era forse anche questa un’illusione, un “effetto ottico” del tempo, come la mia adolescenza, i miei anni di scuola, che credevo non finissero mai?
Se guardiamo indietro nella Storia troviamo tanti esempi, tante epoche che sembravano – ai contemporanei – altrettante eternità, “happy ends” dell’avventura umana, ma che sono svanite e si sono dissipate anch’esse come tutto il resto.
Dopo la vittoria di Ottaviano Augusto contro Antonio nella battaglia di Azio, che sancì la fine della guerra civile romana, iniziò un periodo di pace e prosperità mai vissuto fino ad allora da Roma né da tutto il mondo civilizzato di quell’epoca. La “Pax Romana” durò per più di due secoli, senza guerre, senza minacce per l’Impero. Due secoli! Pensate, come se da Napoleone fino ad oggi ci fosse sempre stata pace e armonia tra i popoli! Nell’Impero Romano tutti erano allora convinti che quella fosse davvero la fine della Storia, che nulla avrebbe potuto più disturbare e cambiare le sorti di Roma.
Ma poi sappiamo com’è andata: furono anche allora grandi migrazioni di popoli, che pressavano dai confini dell’impero (chiamate comunemente “invasioni barbariche”, ma erano in realtà popolazioni che si espandevano e che fuggivano a loro volta da altre pressioni esterne, da Nord e da Est), a cambiare gradualmente l’intera società romana, fino al punto che alcuni degli ultimi imperatori romani erano addirittura di origini “barbare”.
Un analogo stravolgimento fu provocato dalla scoperta dell’America nel 1492 da parte di Cristoforo Colombo, scoperta che ben presto si trasformò in conquista. Le risorse naturali del Nuovo Mondo, a cominciare da oro e argento, fecero convogliare le flotte commerciali sulle rotte atlantiche. Il baricentro dell’economia si spostò sull’Atlantico abbandonando il Mediterraneo, dove molti porti declinarono consegnando al degrado e alla pirateria l’antico Mare Nostrum, fino ad allora protagonista e punto d’incontro delle più grandi civiltà.
Ma già un paio di secoli prima, un viaggiatore che avesse girato il mondo durante il Medioevo sarebbe rimasto colpito dalla grande differenza tra le civiltà d’Oriente e d’Occidente. In quel periodo la dinastia cinese Ming, oltre che rafforzare e prolungare la Grande Muraglia, costruiva a Pechino la splendidà Città Proibita; la stessa civiltà cinese inventava la stampa, la bussola, la polvere da sparo; gli Arabi eccellevano in matematica, astronomia e medicina, mentre in Asia Minore gli Ottomani conquistavano Costantinopoli e consolidavano il loro grande impero, che si estese per un certo periodo dall’India fino al cuore dell’Europa.
Negli stessi anni l’Europa era un territorio desolato, infestato da miseria e sporcizia, dalla peste e dalle sanguinose guerre che città e comuni si combattevano tra loro. L’America era un territorio abitato da civiltà isolate, ad un grado di sviluppo ancora più arretrato, che non conoscevano nemmeno la ruota. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che di lì a pochi secoli Europa e America avrebbero costituito quella società industriale e consumistica che conosciamo, che avrebbe imposto al resto del mondo il suo stile di vita, i suoi modelli e spesso anche il suo dominio.
In effetti, alla fine dell’Ottocento l’Europa aveva la completa egemonia su tutto il resto del mondo, a conclusione di un processo iniziato inaspettatamente con le traversate oceaniche di Colombo e Vasco de Gama. Da allora a poco a poco tutti i Paesi non europei, tranne un paio, finirono sotto il dominio politico, culturale ed economico dell’Occidente. Alcuni, pur restando indipendenti, avevano adottato il modello di vita della civiltà occidentale, come la Russia e il Giappone. Ma la stragrande maggioranza erano di fatto colonie dell’Occidente o lo erano state da poco e ne avevano ereditato la cultura, come gli Stati Uniti d’America.
Pertanto quando la sovrana d’Inghilterra, la regina Vittoria, celebrò il suo giubileo di diamante (sessant’anni di regno) nel 1897, molti interpretarono quell’avvenimento come la vera “fine della Storia”, vedendo quell’evento come il compimento finale, l’epilogo del cammino dell’umanità: l’impero britannico dominava in tutti gli emisferi, come si vede nella cartina, ed era in pace coi vicini alleati (tra l’altro rappacificatisi anche al loro interno, come Stati Uniti, Germania e Italia), che condividevano la cultura e il modello di vita degli inglesi. “Era scritto che sarebbe finita così, d’ora in poi non c’è più storia”. Dicevano...
Ma, ancora una volta, non è andata esattamente come previsto. La Storia è tutt’altro che finita nel XX secolo, anzi il Novecento è stato testimone delle guerre più sanguinose di tutti i tempi, di violente ideologie, di regimi dittatoriali oppressori come il fascismo, il nazismo, lo stalinismo. E siamo arrivati al terzo millennio, annunciato dall’attacco alle Torri Gemelle, che da allora scorre all’insegna della destabilizzazione in Medio Oriente e del terrorismo islamico. Ma niente ci fa pensare che stavolta sia davvero finita: nuove epoche, nuovi ordini e nuove destabilizzazioni si succederanno, in combinazioni già viste o inedite, perché la Storia non finisce, alle volte sembra che si fermi ma poi riparte, senza obiettivi finali, senza un ideale conclusivo da raggiungere.
Almeno non lo stesso per tutti: l'insieme dei comportamenti, delle norme morali e sociali di un popolo, la sua cultura e la sua civiltà, dipendono dall'ambiente in cui vive. Nessuno dei diversi modi di vivere e di pensare è migliore di un altro, non esiste un’unica "cultura umana", ma diverse culture specifiche dei diversi ambienti. Queste culture rappresentano diversi punti di vista sul presente e ciascuna porta diversi valori e ideali. È dunque possibile che l'ideale di progresso proposto e diffuso da una società (come la nostra) non sia accettato da altre culture, che pongono in primo piano valori diversi. La democrazia, insomma, non si esporta come se fosse un combustibile o un genere alimentare.
Il futuro appartiene — lo si voglia o meno – a relazioni multiculturali, ad una società globale, multirazziale, interetnica, plurireligiosa. Come quella che sta diventando l’America, quella in cui si sta trasformando l’Europa e in cui si trasformeranno presto molte altre regioni del globo. Molti Paesi pensano di costruire muri per respingere profughi, immigrati, stranieri, senza ricordare che fortezze e mura non sono mai riuscite a fermare la Storia. Nemmeno la Grande Muraglia alla fine riuscì a contenere le invasioni mongole. E comunque le mura non hanno alcun senso anche perché, come Troia, ci siamo ormai già portati dentro il nostro bel cavallo di legno, attraverso il colonialismo, l’imperialismo e la globalizzazione.
Esiste forse una “storia universale”, che – pur con le diverse varianti - coinvolga tutta l’umanità in un comune destino e che tenda ad un punto finale di evoluzione? Non lo sappiamo ma, anche se esistesse, non seguirebbe un cammino lineare: così come noi invecchiamo tra alti e bassi, tra gioie e rimpianti, stringendo e sciogliendo legami, ripetendo spesso gli stessi errori nella vita, allo stesso modo anche l’umanità si avviluppa, si contorce negli stessi errori, in guerre e rivoluzioni che non hanno mai un epilogo conclusivo.
La Storia non finisce mai anche perché ogni generazione, pur progredendo e avanzando nelle conoscenze scientifiche e tecnologiche, non può imparare tutto dalle generazioni precedenti: gli scenari umani cambiano in continuazione, come le combinazioni infinite del DNA. Certo, vista da una prospettiva limitata, a livello di singole vite umane, la Storia è scomposta in epoche lunghissime, che sembrano eterne a chi le vive, come fu per la Pax Romana, per l’Impero Britannico, come fu per la mia adolescenza... Ma alla lunga, nel corso delle varie generazioni umane, queste eternità risultano tutte brevi, limitate, in trasformazione l’una nell’altra, nessuna di esse rappresentando un approdo finale della Storia. Con l’intima speranza che davvero non arrivi mai questo approdo: qual’è infatti il traguardo finale di ogni vita, se non la morte?
©Louis Petrella
Dicembre 2015
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