Chiamato dal silenzio
- Louis Petrella
- 1 giorno fa
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Avevo sempre sospettato che tra gli esseri umani ci fossero legami invisibili, che andassero oltre i cinque sensi comuni, e ne ho avuto conferma in diverse circostanze della mia vita. Soprattutto in circostanze tristi che mi hanno coinvolto personalmente, anche se accadute lontane da me. Una di queste circostanze è stata la morte di mio padre, che ho "sentito" a cento chilometri di distanza, dall’alberghetto vicino Brescia dove svolgevo il servizio civile.

La morte di mio padre ha segnato una svolta drammatica nella mia vita. Non solo è arrivata all'improvviso, inaspettatamente, ma anche in un momento per me critico, la mia prima assenza da casa per il servizio civile, in coincidenza con lo stallo della mia tesi di laurea, in cui mi ero arenato. Mio padre morì un lunedì sera, il 14 aprile 1986, all'età di 62 anni. Improvvisamente. L’avevo visto fino al giorno prima, avevamo trascorso insieme il fine settimana: il sabato eravamo andati insieme a comprare due biciclette, una per lui e una per me, alla “Fiera di Sinigaglia”, storico mercatino milanese delle pulci. La mattina successiva avevamo girovagato con le nuove bici, pedalando e chiacchierando di politica. Poi, come ogni domenica pomeriggio da un paio di mesi, avevo salutato lui e gli altri familiari e mi ero diretto alla Stazione Centrale, per tornare alla sede del mio servizio civile. Il treno per Brescia e da lì l'ultimo autobus per Botticino. Avevo iniziato il servizio civile solo due mesi prima, a febbraio, come obiettore di coscienza presso i Servizi Sociali di quel Comune, insieme ad altri due obiettori: Marco, da Verona, entrato in servizio pochi giorni prima di me; e Paolo, da Firenze, in servizio da molto più tempo e ormai alla fine dei suoi venti mesi di leva. Eh sì, il servizio civile all'epoca durava venti mesi, quindi otto mesi in più del normale servizio di leva militare. Una “punizione” per chi si rifiutava di imbracciare le armi.
Il Comune di Botticino – come previsto dalla legge – aveva offerto ospitalità a noi tre obiettori in una locanda lungo la strada tra Botticino e Brescia. Si trattava di un ristorante con alcune camere al piano superiore, che sull’insegna si autodefiniva pomposamente "Albergo". Un ambiente un po’ ambiguo, in fondo alle cucine erano stipati vari tipi di apparecchi elettronici (televisori, radioregistratori, impianti stereo...) che destavano qualche sospetto di contrabbando, se non proprio di ricettazione. In ogni caso noi, ospiti anche se a spese del Comune, venivamo trattati dai gestori con condiscendenza, senza problemi, quasi ignorati. Le camere erano piuttosto spartane: noi tre condividevamo la stessa stanza, dotata solo di letti, sedie, un armadio e una scrivania. Il bagno era in comune con altre camere, nel corridoio, e non c'era una vera e propria "reception". Per comunicare con l'esterno avevamo un telefono (a pagamento) situato nella sala ristorante. Peraltro, il ristorante era chiuso il lunedì, ma davvero "chiuso", anche per noi ospiti dell'hotel. Il lunedì potevamo accedere alla nostra camera solo dal retro dell’edificio, ed eravamo quindi isolati dal resto del mondo poiché il telefono, nella sala ristorante chiusa, rimaneva inaccessibile.

Un lunedì sera di metà aprile, dopo aver trascorso la giornata assistendo i disabili del paese e organizzando varie attività sociali, io e i miei amici abbiamo consumato una cena frugale, lasciataci dal personale del ristorante prima di chiudere la cucina e sparire, dopodiché abbiamo guardato insieme il telegiornale delle 20, come al solito, nella saletta TV. Io intanto iniziavo a sentirmi insolitamente inquieto, a disagio, con il desiderio di essere altrove. Uno strano turbamento si era impossessato di me, e quando i miei amici sono andati in camera, non me la sentii di andare a rintanarmi con loro. Non avendo altro da fare, mentre gli altri due si mettevano a letto a leggere i loro libri, sentii il bisogno di telefonare a casa, cosa che non facevo mai a quell'ora; e tanto meno il lunedì sera, quando non avevo un telefono a disposizione. Di solito comunicavo a sufficienza con i miei genitori durante il giorno, usando il telefono dell’ufficio comunale, e inoltre ero stato a casa solo il giorno prima. Scesi di nuovo al piano di sotto, il ristorante era chiuso, il telefono inaccessibile, così uscii in strada. Erano ormai le nove di sera, le strade erano buie e non c'era nessuno in giro, e iniziai a cercare una cabina telefonica. Ci misi parecchio tempo, ma alla fine ne trovai una; a casa nessuno rispose. Provai diverse volte, ma l'altro capo del telefono continuava a squillare a vuoto. Non era nella mia natura essere testardo, insistere troppo, cercare alternative, in situazioni come queste. Normalmente avrei rinunciato e sarei tornato in albergo. Tanto più considerando che non avevo niente di nuovo da dire. Eppure quella sera insistetti, non volevo arrendermi. Dato che sembrava che non ci fosse nessuno a casa mia, provai con la persona più vicina che mi venne in mente in quel momento, la mia ragazza.
"Ah, Louis, finalmente! È tutta la sera che cerchiamo di chiamarti in hotel!" rispose, non appena riconobbe la mia voce. Quindi mi cercavano, e non sarebbero mai riusciti a trovarmi, il telefono del nostro albergo avrebbe squillato tutta la notte.
"Devi correre a casa subito", continuò, "tuo padre sta molto male". Ero sorpreso, tornare a casa ora alle nove e mezza di sera?! "Sì, è urgente! Fatti accompagnare alla stazione e prendi subito il treno per Milano, presto!" Tornai di corsa in albergo, infilai qualcosa nella borsa e informai i miei compagni. Sapevo che il signor Guerini, un impiegato della contabilità comunale, abitava non lontano dal nostro hotel. Una brava persona, sulla quarantina, che aveva familiarità con noi obiettori e ci aveva invitato a casa un paio di volte a bere qualcosa. Mi ricevette già in pigiama, stava guardando la TV con sua moglie. Quando gli spiegai la situazione fu molto comprensivo, andò a cambiarsi e scendemmo insieme alla sua macchina. Non parlammo per i dieci minuti che ci vollero per arrivare alla stazione di Brescia, da dove presi il primo treno per Milano. La mia ragazza venne a prendermi al binario, la vidi venirmi incontro appena sceso dal treno. Quando fummo abbastanza vicini mi disse: "Tuo padre è morto". Rimasi senza parole, paralizzato. Per tutta la sera ero stato colpito da quella strana angoscia, che in quel momento trovò la sua motivazione. "Ha avuto un infarto".
Suo padre ci aspettava in macchina fuori dalla stazione. Arrivammo all'Ospedale di Niguarda che era già notte e poi, mentre ero completamente in trance, ci ritrovammo all'obitorio. Ripresi i sensi quando entrammo in una piccola stanza, dove trovai mia madre, mio fratello e mia sorella, di fronte a mio padre disteso su un letto, coperto da un lenzuolo bianco. Scoppiai a piangere, tutta la mia tensione si sciolse, mi avvicinai a lui in lacrime per baciarlo sulla guancia. Fu allora che fui colpito dalla sua pelle, che si era disidratata ed era diventata dura e ruvida come cartone, una strana sensazione sotto le labbra, che non avrei dimenticato mai più.
Seguirono giorni convulsi, insieme a tutta la famiglia dovemmo espletare le varie procedure burocratiche di circostanza, tra Comune, Palazzo di Giustizia, studio notarile per l'esecuzione del testamento... Feci tutto meccanicamente, come in una realtà sospesa, così alienato che, quando un giorno andammo al Comune di Via Larga, per un po’ non riuscii più a ritrovare il posto dove avevo lasciato l'auto. Come in tutte le situazioni in cui ci si sente schiacciati dalle circostanze e non si riesce ad avere il pieno controllo di sé, fummo sottoposti a pressioni e decisioni che ci sembravano troppo grandi. Ad esempio, la questione dell’autopsia apparve come un dramma etico ed esistenziale: alcuni ci consigliavano di cercare di evitarla a tutti i costi, inutile mancanza di rispetto per il defunto; altri dicevano il contrario, confermando che l'autopsia era una procedura del tutto normale, anzi necessaria, in casi di morti improvvise. Un giorno poi si presentò a casa nostra un tizio che disse di essere stato mandato dal Cimitero Comunale per svolgere alcune pratiche e ci fece firmare dei documenti. Poi scoprimmo che non era altro che l’impiegato di un'agenzia di pompe funebri, che ci aveva venduto la tomba estorcendoci la firma del contratto, sfruttando la nostra fragilità psicologica del momento.

Intanto, in quanto nuovo capofamiglia, mi fu accordata qualche settimana di pausa dal servizio civile. Presentai domanda di trasferimento al Comune di Turbigo, più vicino a Milano, il quale, ancora prima che iniziassi il servizio, aveva già avanzato una richiesta formale di assunzione presso il Ministero della Difesa, come aveva fatto con altri obiettori. Quel Comune, infatti, disponeva di un ufficio ad hoc per gli obiettori, con cui sviluppava progetti specifici. Inoltre, li utilizzava anche presso l’Ufficio Tecnico, il che sarebbe stato molto utile per la mia esperienza, in quanto laureando in Architettura. Tuttavia, quella richiesta venne ignorata dal Ministero, come spesso accadeva. A febbraio dovetti quindi partire per Botticino e sospendere il lavoro per la tesi, che rischiava così di fermarsi e arenarsi per molti mesi.
Dopo la morte di mio padre riuscii a raggiungere un accordo con i due Comuni: ufficialmente, il Comune di Botticino - dove ero stato precettato dal Ministero - mi mandava in "missione" al Comune di Turbigo per elaborare un progetto di edilizia residenziale pubblica per disabili. Era un ottimo compromesso tra i due uffici in cui avrei dovuto e voluto lavorare: i servizi sociali di Botticino e l'ufficio tecnico di Turbigo. In cambio, avrei redatto una relazione mensile sullo stato di avanzamento del mio progetto. Un progetto molto ambizioso, sapevamo tutti che da solo non sarei mai riuscito a completarlo, anche perché non disponevo dei mezzi e delle risorse per realizzarlo concretamente: si trattava più che altro di un espediente per farmi trasferire e avvicinarmi a Milano e alla mia famiglia. E comunque era pur sempre materiale che poteva rivelarsi utile a entrambi gli enti comunali, per eventuali sviluppi futuri. In ogni caso, non mi fu difficile trovare contenuti per le mie relazioni, attingendo ai miei studi di ingegneria e architettura, e poi sapevo che queste mie relazioni, alla fine, non sarebbero state comunque lette da nessuno. Secondo gli accordi, dovevo anche compilare un modulo di registrazione, su cui indicare i giorni e le ore lavorate, che doveva essere firmato ogni mese dal sindaco di Turbigo e trasmesso poi a Botticino.
Il mio servizio civile si concluse solo nell’autunno del 1987, un anno e mezzo dopo la morte di mio padre. Ma nel frattempo, a dicembre dell’86, mi laureai finalmente in Architettura, con una tesi sul restauro dei Sassi di Matera, per la quale riuscii ad utilizzare anche un po’ del materiale usato per le mie relazioni tecniche al Comune di Turbigo. Inutile dire che non ci fu nessuna festa di laurea, non c’era l’atmosfera giusta per festeggiare, c’era un’assenza che pesava ancora molto.

Molti mesi prima mio padre mi aveva aiutato a ricopiare a macchina le prime stesure della tesi, e poi – dopo che ricevetti la cartolina di precetto – mi incoraggiò nei tentativi di ottenere l’assegnazione all’Ufficio Tecnico di Turbigo, in modo da poter conciliare il servizio civile con lo studio e la tesi di laurea. Laurea che purtroppo lui non avrebbe mai visto.
Fu allora che compresi il legame che avevo con mio padre, un legame che andava anche oltre la morte: quel silenzio che mi aveva angosciato e che mi aveva spinto a telefonare a casa quella sera di aprile; quel silenzio era mio padre che mi chiamava mentre se ne andava, che mi diceva che avrebbe comunque fatto di tutto per aiutarmi. Anche se non era più accanto a me, nei mesi successivi lo sentivo vicino, soprattutto quando la sera trovavo l’energia per lavorare alla tesi, quasi in apnea, dopo giornate passate in Comune a occuparmi del mio progetto e delle altre pratiche che mi venivano assegnate. Senza cadere nel sentimentalismo, davvero era come se sentissi la voce di mio padre in quei silenzi, c’era lui che mi incitava. C’era la sua assenza, sì, ma anche la sua presenza che non se n’è mai davvero andata.
Come quando, dieci anni dopo, divenni padre anch’io a mia volta. Ma questa è tutta un’altra storia…
© Louis Petrella
Giugno 2025
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