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L'Europa tra passato e futuro

Non c'è dubbio: l'Europa morirà se non combatte per difendere le sue lingue, le sue tradizioni locali, le sue autonomie sociali.

Perirà se dimentica che «Dio si trova nei dettagli».

(George Steiner)

 

Lo scrittore, saggista ed ebraista francese George Steiner (1929-2020) ha trattato nelle sue varie opere dei rapporti tra potere, barbarie e cultura. Nel saggio dal titolo “Una certa idea di Europa” ha cercato in particolare di cogliere e analizzare l’essenza e l’anima profonda del nostro continente, delineandone l’identità attraverso alcune caratteristiche distintive.

La prima caratteristica europea, poetica e concreta al tempo stesso, è l’onnipresenza dei “caffè” (forse in omaggio a questa rivista che mi ospita). Non nel senso di luoghi di ristoro ed esercizi commerciali, ma come luoghi di confronto, fucine di idee e di pensieri. Nei caffè europei si è scritto, discusso, tramato. Sono nati movimenti estetici, correnti filosofiche, utopie politiche, si è plasmata la coscienza moderna. È lì che l’intelletto borghese ha trovato casa, nella penombra odorosa di caffè e tabacco.

Per Steiner, la vera Europa inizia nel diciannovesimo secolo, non nasce con i Greci, né con Roma, né nei castelli o nei chiostri medievali. Comincia nel XIX secolo, quando prende forma un’idea di civiltà urbana, borghese, razionale, organizzata attorno ai codici della cultura scritta, del diritto, dell’arte come esercizio critico. Tutto ciò che precede – dai presocratici a Platone e Aristotele, dai padri della Chiesa alla mistica medievale, dal Rinascimento all’Illuminismo – tutto è servito come preparazione, come terreno fertile: era seme, non frutto. Le grandi forme artistiche, dal gotico al barocco, non sono ancora l’Europa che Steiner ha in mente.

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La sua Europa è quella borghese, quella dei boulevard parigini e dei viali viennesi, delle biblioteche e dei salotti. E, appunto, dei “caffè”. È un continente in cui l’identità si costruisce nel dialogo, nella disputa, nello scambio di idee tra persone che, per quanto in minoranza, portano il peso del pensiero. Steiner vede la storia europea soprattutto come una storia di élites, di minoranze pensanti, di intelligenze isolate e visionarie, ma decisive. Voci spesso inascoltate, o addirittura accusate di essere la causa di ogni male, ma senza le quali non ci sarebbe alcuna cultura. E non si fa scrupolo nel dire che l’intelligenza è sempre minoritaria, non ha mai coinciso con la maggioranza. Una verità scomoda, ma chiara.


Un'altra cifra dell’Europa è il suo rapporto con la Natura. In Europa la Natura è stata nei secoli addomesticata, trasformata in paesaggio, resa abitabile. I fiumi sono stati arginati, le foreste diradate, le montagne attraversate da strade e gallerie. Qui la natura da nemica è stata resa docile, ordinata, accessibile, percorribile. Non ha nulla della brutalità selvaggia dell’Africa, dell’Asia o dell’Australia. È una natura che è stata disegnata a misura d’uomo, trasformata in giardino, un  rapporto di dominio e di cura che è però ambivalente: proprio da questa tradizione di controllo sulla natura nasce il peccato originale europeo nei confronti dell’ambiente. L’atteggiamento di supremazia nei confronti della natura ha contribuito alla crisi climatica globale; l’Europa, che ha esportato idee e conquiste, ha esportato anche modelli di sfruttamento ambientale. Eppure oggi è anche tra i pochi luoghi in cui esiste la volontà di correggere il disastro, di riconoscere i propri errori e cercare nuove vie. Mentre altrove la natura è tuttora temuta e violentata, come un avversario da sconfiggere, in Europa si tenta almeno in parte di riscoprirla come interlocutore, come ecosistema da ascoltare. L’Europa inquina, sì, ma è anche tra le poche regioni del mondo che cercano di correggere il corso degli eventi. Le leggi ambientali, i limiti alle emissioni, la gestione dei rifiuti e degli imballaggi, la lotta agli scarichi industriali, sono tutte iniziative nate in Europa.


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E poi, c’è il peso del passato. L’Europa è intrisa di passato, lo respira ad ogni angolo, è una civiltà stratificata dove ogni pietra racconta una storia. In nessun altro continente si vive circondati da così tante rovine, statue, palazzi, musei, nomi, ricorrenze. Si studia il greco e il latino, si venerano le glorie passate, si abita in strade dedicate a eroi dimenticati. Anche la nostalgia è antica: gli stessi Greci, prima ancora di “inventare” l’Europa, guardavano già con rimpianto all’età dell’oro, all’epoca in cui gli dei camminavano tra gli uomini.

La civiltà europea è unica perché è l'unica a essersi imposta nel resto del mondo, tramite la conquista e l'insediamento, grazie alla sua potenza economica e alla potenza delle sue idee; e perché possedeva cose che tutti gli altri desideravano. Colonizzando il mondo, esportando idee, merci, guerre e religioni - anche brutalmente - l’Europa ha imposto la propria visione, la propria lingua, i propri valori, le proprie credenze; ha esportato modelli, assoggettato popoli, tracciato confini. Anche le grandi potenze extraeuropee di oggi – gli Stati Uniti, il Giappone – portano impresso il sigillo dell’Europa. E forse questo sguardo retrospettivo, questa costante idealizzazione di ciò che è stato, è la vera cifra della nostra identità: la sensazione che ogni apice sia già stato toccato. Peraltro, tutto lo splendore e la gloria di questo passato, come abbiamo accennato, sono stati possibili grazie soprattutto alla supremazia militare ed economica. Ma l’egemonia oggi si è spenta. Militarmente ed economicamente, l’Europa è ormai superata. Le sue parole si perdono in un mondo che chiede efficienza, velocità, denaro, potere. E l’Europa, oggi, non ha più né le fabbriche, né gli eserciti, né i sogni. L’industria è altrove, i beni che usiamo ogni giorno – telefoni, abiti, utensili – vengono dall’Asia o dall’America. E i sogni, ormai, ci arrivano da Hollywood, confezionati in serie.

È vero, la principale industria europea è quella del turismo, fondato proprio sulla sua ricca storia millenaria. Ma è un’industria che rischia di trasformare l’Europa in un grande parco di divertimenti o in un museo a cielo aperto, svuotata del suo significato, col mero ruolo di intrattenimento e incapace di influenzare davvero il corso del mondo.

In Europa il futuro sembra quindi un’eco lontana, un’ipotesi debole.  Resta, spesso, il ricorso alla “autorità morale”, come a un’ultima risorsa in mancanza di altro. Ma un’autorità morale non si impone se non si ha la forza per sostenerla. L’Europa oggi fatica a parlare con un’unica voce: è frammentata, esitante, litigiosa, indifesa, sospesa così tra un passato glorioso e un presente che non le appartiene più. Persino l’idea di una difesa comune, di un rafforzamento dei propri sistemi di protezione, in un mondo lacerato da guerre e conflitti come non mai negli ultimi ottant’anni, persino questa idea trova resistenze e divisioni all’interno dell’Unione. E così l’Europa resta lì come un vecchio saggio seduto al tavolino di un malinconico caffè di provincia, in balìa degli eventi, a raccontare storie di un tempo passato, mentre il futuro ha deciso di andarsene altrove.

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Ma forse, paradossalmente, è proprio in questo esilio dal centro del mondo – così isterico e arrabbiato - che l’Europa può ritrovare se stessa: non come potenza, ma come coscienza. Non come impero, ma come luogo della riflessione, della critica, della misura, utilizzando quelle competenze che gli anglofoni chiamano soft skills. Dopotutto, siamo la patria dei diritti civili e dei diritti umani. L’Europa è il luogo in cui questi diritti furono dichiarati e dove vengono rispettati molto più che altrove. Non è più l’ora delle conquiste, ma del pensiero lungo. E in un mondo che grida e corre senza sapere dove va, forse la voce più saggia è proprio quella che sa fermarsi. Per trovare il “Dio nei dettagli”.


©Louis Petrella

Settembre 2025

 
 
 

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