Confini
- Louis Petrella
- 19 mar
- Tempo di lettura: 7 min
Da quassù la Terra è bellissima, senza frontiere né confini
(Jurij Gagarin)
Di confini non ne ho mai visto uno. Ma ho sentito che esistono nella mente di alcune persone
(Thor Heyerdahl)
Mezzo secolo fa ci venne a trovare a Milano un fratello di mio padre che abitava negli Stati Uniti, il classico “zio d’America”. Lo zio Antonio - ovvero uncle Tony, come lo chiamavamo noi - era rimasto a vivere a Detroit (la mia città natale), mentre suo fratello John – cioè mio padre – era ormai rientrato in Italia con la famiglia da diversi anni.
Abitavamo a Milano ma avevamo anche una casetta sulle Alpi, in una valle a pochi chilometri dal confine con la Svizzera. Visto che a Detroit era circondato soprattutto da paesaggi pianeggianti, proponemmo a mio zio di passare qualche giorno nella nostra casa in montagna. Tony accettò volentieri e, quando seppe che stavamo a pochi chilometri dal confine svizzero, tutto eccitato ci chiese di portarlo a fare un’escursione oltre frontiera. Superato il confine di Ponte Ribellasca e una volta entrati nel Canton Ticino, la nostra valle cambiava nome – dall’italiana “Val Vigezzo” diventava la svizzera “Centovalli” - ma per il resto paesaggio e ambiente restavano identici, comprese le baite che punteggiavano i pendii, la vegetazione alpina e pure la lingua che compariva su insegne e cartelli stradali. Dopo qualche chilometro ci fermammo in un villaggio, identico a quelli che avevamo attraversato in Italia, e acquistammo in un negozietto prodotti tipici locali, tra cui un coltellino multiuso e qualche tavoletta del rinomato cioccolato svizzero.

Quando in serata arrivò il momento di rientrare a casa, Tony espresse tutta la sua delusione chiedendoci “and that’s all Svizzera?!” Si aspettava forse di trovare oltre confine orologiai e cioccolatai abbigliati coi lederhosen, i tipici pantaloni al ginocchio con bretelle, intenti a suonare corni alpini e a intonare canti yodel. Immagini della tradizione e del folklore svizzero che sperava di incontrare, una volta passata la frontiera. Purtroppo non trovammo nulla di tutto ciò, così come d’altronde non è nemmeno frequente incontrare gondolieri e pizzaioli col mandolino, quando si arriva in Italia…
L’episodio di uncle Tony in Svizzera mi torna spesso in mente quando, attraversando una frontiera per la prima volta, noto quanto in realtà ci sia di affine e di simile nelle terre al di là e al di qua del confine. Nella maggior parte dei casi cambia la lingua (ma non sempre, come nel caso della Svizzera italiana) ma per il resto i popoli limitrofi condividono molto delle loro tradizioni e delle loro culture.
La parola “confine” viene dal latino cum-finis e letteralmente significa “limite in comune”, cioè una soglia che separa e nel contempo unisce, che si ha in comune con gli “altri”. Un capolinea bifronte, luogo di chiusura, di separazione, spesso di conflitto, ma anche di contatto, di interazione e di scambi culturali. Un confine, che sia mentale o materiale o anche solo simbolico, può essere una barriera che blocca o un ponte da attraversare, può stimolare il dialogo o soffocarlo.
Le frontiere sono state e sono tuttora protagoniste in politica e in economia, le terre di confine sono state spesso campi di battaglia, teatri di esclusione, di discriminazione e di dazi, specialmente se rafforzate da barriere fisiche o ideologiche. Nella “wild frontier” del Far West si avventuravano i pionieri nordamericani, penetrando nel territorio delle tribù native, spodestandole e rinchiudendole poi nelle “riserve” indiane. Alle volte le frontiere sono rese insuperabili, sorvegliate da rigide dogane, chiuse da muri e fili spinati, soprattutto quando la tentazione di superarle esiste solo in un’unica direzione. Ma abbiamo avuto anche situazioni in cui le frontiere sono diventate laboratori di creatività, di fusione di culture, luoghi dove sono germogliate nuove varianti di umanità. Zone di transizione, spesso bilingue (come in Alsazia o in Alto Adige, o nel Belgio da dove scrivo), in cui si mescolano identità e tradizioni, offrendo opportunità di scambi e cooperazioni. D’altronde il termine “frontiera”, derivato da fronte, richiama il concetto di visi e sguardi rivolti in avanti, verso lo straniero a cui si volge la fronte, anziché dare le spalle.

Alle frontiere si devono la varietà e la molteplicità delle culture e delle arti nel pianeta, avendo la separazione incoraggiato e ispirato esperienze differenziate e variegate. Mondi espressivi che a volte, come dicevamo, si sono ritrovati, mescolati e integrati. Sebbene l’incomprensione linguistica sia uno dei maggiori intralci al dialogo e alla comunicazione tra i popoli, l’arte permette spesso di superare questo ostacolo: il linguaggio dell'arte è universale, supera i confini geografici e politici perché, a differenza delle lingue parlate, si esprime attraverso simboli, emozioni e forme che toccano l’essenza dell’umanità. Un dipinto, una scultura, una melodia o una danza sono espressioni artistiche che evocano sentimenti profondi senza bisogno di traduzioni, possono essere comprese e apprezzate da culture diverse, poiché fanno leva su emozioni e percezioni condivise. E oltrepassano pure i confini temporali: i grandi capolavori, oltre che superare le frontiere, scavalcano anche i secoli. Persino i graffiti nelle caverne preistoriche ci emozionano ancora oggi, nonostante siano stati realizzati migliaia di anni fa. L’arte resta quindi un importante strumento di dialogo e di comprensione reciproca, un ponte che può farci attraversare barriere che peraltro sono spesso solo immaginarie, come quelle che non riuscivano a vedere né Thor Heyerdahl dall’oceano né Jurij Gagarin dallo spazio.
Barriere che però qui, a terra, continuano a distinguere le diverse identità culturali, sociali e politiche. I confini geografici sono spesso tracciati per definire la sovranità di uno Stato su di un determinato territorio, possono seguire elementi naturali, come fiumi o catene montuose, oppure essere il risultato artificiale di accordi politici e trattati. Com’è stato dal 1961 al 1989 per la città di Berlino, attraversata da un muro invalicabile e divisa tra i due blocchi contrapposti della Guerra Fredda. E com’è stato per la slovena Nova Gorica e l’italiana Gorizia, nominate insieme Capitali Europee della Cultura per il 2025: due città ma un’unica popolazione, anch’essa spaccata in due nel 1947 quando venne tracciato il confine tra Italia e Jugoslavia attraverso il centro cittadino, dividendo in due strade, case e persino il cimitero. L’ingresso della Slovenia nell’area Schengen nel 2007 ha poi di fatto riunificato le due città, che in realtà non si erano mai sentite separate nello spirito. Da allora è ripreso il dialogo culturale e sociale tra le comunità friulana e slovena, attraverso arte, musica e teatro.

Anche i confini fisici raramente sono neutri, visto che la loro definizione viene spesso dettata da dinamiche di potere, da conflitti storici e da compromessi. La loro esistenza può generare sia stabilità che tensioni, e i confini stessi possono essere transitori e precari, a seconda delle contingenze storiche in cui sono tracciati e che cambiano in continuazione: nessun confine è per sempre. Basti pensare a quanto erano vasti gli imperi persiano, romano o mongolo, all’instabilità delle frontiere degli Stati germanici o della penisola italica dal Medioevo all’Ottocento, oppure a come si sono dissolti l’impero Austro-Ungarico o la Jugoslavia. Nemmeno oggi dobbiamo dare per scontati i confini: si parla tanto di globalizzazione eppure, nonostante tutto, il mondo continua a fondarsi sul concetto di frontiera. Una conferma è data da quello che accade oggi a Gaza e in Cisgiordania, nel Donbass, alle pretese di Putin sull’Ucraina o a quelle di Trump su Panama e Groenlandia…
Il significato dei confini e delle frontiere è in costante evoluzione. La globalizzazione ha messo in discussione l’idea di confini impermeabili, favorendo la circolazione di beni, persone e idee. Tanto più che la standardizzazione industriale e le nuove tecnologie, come internet e i social network (che con le traduzioni automatiche riducono ormai anche le barriere linguistiche), hanno trasformato il mondo in un unico villaggio globale.
Ma queste aperture hanno provocato anche reazioni opposte, come il rafforzamento di molte frontiere con l’inasprimento delle politiche migratorie, mostrando quanto sia precario l’equilibrio tra apertura e chiusura, tra il desiderio di proteggere le identità nazionali e la necessità di affrontare sfide globali comuni, come la crisi climatica e la tutela dell’ambiente e della salute. L’Unione Europea ha creato da anni uno spazio comune, senza frontiere interne, in cui si circola liberamente e si scambiano competenze ed esperienze, come nel programma Erasmus. Ma questo spazio comune coesiste con barriere che molti Paesi europei rendono più ermetiche lungo i confini esterni: un dualismo che mette in luce le tensioni tra integrazione e sovranità, tra solidarietà e sicurezza.
Durante la pandemia e l’emergenza dettata dalle misure anti-Covid nel 2020 e nel 2021, ogni Stato e addirittura ogni Regione aveva proprie regole sanitarie ed era obbligatorio munirsi di certificati e permessi speciali per recarsi da un paese all’altro. Eravamo così ripiombati indietro di decenni o addirittura di secoli, a quando l’Europa era un fitto mosaico di stati indipendenti, sperimentando nuovamente il peso delle frontiere e la loro ingerenza nella vita quotidiana.

I confini segnano l’interno e l’esterno, il dentro e il fuori, il noto e l’ignoto, il quotidiano e l’esotico: il contatto tra gli opposti è sempre stabilito da un confine, da una soglia. La frontiera rappresenta l’equilibrio, spesso instabile, che bilancia spinte di separazione e voglia di legame, bisogno di protezione e desiderio di conoscenza.
Superare un confine rimane ancora oggi un’esperienza significativa. Anche se a volte intorno sembra tutto uguale, come accadde col confine svizzero attraversato con uncle Tony, spesso scopriamo però che - comunque – qualcosa pur sempre cambia al di là, che c’è qualcosa di nuovo che non conoscevamo, che ci arricchisce in qualche modo, fosse anche solo un coltellino o una tavoletta di cioccolato. L’attraversamento di un confine ci fa capire anche l’esistenza e l’importanza dei nostri stessi limiti, è un antidoto contro il rischio e l’arroganza di credere di sapere tutto quanto serve sapere; ci dà la possibilità di migliorarci, con l’umiltà e la consapevolezza che ci sia sempre qualcosa di là che valga la pena di conoscere e di comprendere, nel rispetto di chi sta dall’altra parte, coi suoi valori, i suoi costumi e la sua cultura.
Ma allora: le frontiere vanno superate o mantenute? Dobbiamo restare divisi o mescolarci? Forse la cosa migliore è mantenere la propria identità, ma sentendosi un po’ da questa parte e un po’ dall’altra, accogliendo chi ci visita e rispettando chi ci ospita. Anche senza rimuovere i confini: qualcuno disse che buoni confini fanno anche buoni vicini.
Gli esseri umani migrano e scavalcano frontiere (reali o immaginarie) da decine di migliaia di anni. Ci siamo evoluti proprio grazie alle migrazioni, all’esistenza delle frontiere e al loro superamento: ci siamo arricchiti culturalmente e spiritualmente con le nostre fughe oltre confine, con le convivenze, le selezioni naturali, le sovrapposizioni tra i vari flussi migratori. Solo apparentemente siamo una specie stanziale; in realtà siamo in continuo movimento e alla ricerca continua di qualcosa di nuovo e di diverso; come Ulisse, che impiegò dieci anni per ritornare alla sua Itaca, in continua peregrinazione nel Mediterraneo. Per poi ricominciare, oltrepassando quelle Colonne d’Ercole che al suo tempo rappresentavano il limite ultimo del mondo conosciuto.
E noi, come Ulisse, non dobbiamo cercare il confine per sapere quando fermarci, ma solo per scoprire da dove inizia il prossimo viaggio.
© Louis Petrella
Marzo 2025
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