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Immagine del redattoreLouis Petrella

La prima e l'ultima

Aggiornamento: 28 dic 2021

L'ultima luna

la vide solo un bimbo appena nato,

aveva occhi tondi e neri e fondi

e non piangeva

con grandi ali prese la luna tra le mani

e volò via e volò via

era l'uomo di domani, l'uomo di domani.

(Lucio Dalla)


I bimbi appena nati sono gli uomini di domani, cantava Dalla nel 1979.

Ai neonati si affida il testimone – l’ultima luna – per proseguire la corsa, anzi il volo, verso il domani.

Ma il neonato ovviamente non se ne rende conto. La coscienza inizia lentamente a delinearsi solo dopo qualche anno, all’età a cui risalgono anche i nostri primi ricordi. E i primi anni di vita fluttuano nella memoria come sprazzi di luce, scollegati tra loro, disseminati qua e là in mezzo a una grande oscurità. Le memorie legate a quegli anni sono in parte frutto di narrazioni successive ascoltate dagli adulti (soprattutto dai genitori) ma anche di qualche ricordo personale diretto. Di molti ricordi mi è rimasta impressa un’immagine visiva dell’evento e del luogo dove si è svolto; ad ogni età abbíno un luogo, una città, e anche una nazione diversa.

Lo spazio e il tempo corrono paralleli, lungo le nostre storie di vita. Laddove si sposta il tempo si sposta anche lo spazio, soprattutto per chi ha viaggiato e vissuto in luoghi diversi nell’arco della propria vita. La mia infanzia, ad esempio, è legata indissolubilmente agli Stati Uniti, ai quartieri di Detroit dove ho mosso i primi passi e dove ho vissuto fino ai cinque anni d’età. Il mio primo ricordo riguarda un trasloco: alla mia nascita abitavamo in una casa di Moross Road, ma dopo qualche anno i miei genitori decisero di trasferirsi in una villetta poco distante, a Saratoga Avenue. Ovviamente io non mi resi conto del trasloco e di quel che stava accadendo: di quel momento - avevo tre anni - l’unica cosa che ricordo (di fatto la più antica impronta nella mia memoria) è che arrivammo un giorno in una nuova casa, che però era vuota. Non c’erano mobili, nessun tavolo, nessuna sedia, niente letti... E mi accorsi subito che, mentre i miei genitori parlavano, le loro voci riecheggiavano dappertutto e la cosa mi colpí. Mi misi anch’io a fare suoni, a gridare in giro per le varie stanze vuote per sentire l’eco della mia voce rimbalzarmi addosso. Sembrava che ci fossero fantasmi nascosti dietro le pareti che mi rispondevano. Continuai a duettare cosí con gli spettri per un po’, finché non fu il momento di andarcene da quella strana casa. Per tornarci qualche giorno dopo, insieme ai mobili.

Mi ambientai presto nella casa di Saratoga Avenue. Fu lì che trascorsi anche il primo Natale di cui ho memoria, quello in cui per pochi attimi persi l’opportunità di incontrare Santa Claus in persona, come ho già raccontato.

Però, con le stanze ammobiliate, non c’erano più echi e fantasmi con cui giocare. Mi dovetti cercare quindi altri passatempi. Un giorno scoprii che con una scaletta si scendeva in un “basement”, come lo chiamavano i miei genitori: una grandissima stanza che occupava tutta la superficie della casa, ma sottoterra. Lí era stato messo anche un vecchio pianoforte di mia mamma. Cosí mi inventai un nuovo gioco: scendevo giù nel basement, mi immergevo in quel mondo misterioso e sotterraneo e coi tasti più bassi del pianoforte creavo tempeste e temporali, fingendo di trovarmi nella stiva di una nave, coi tuoni che rimbombavano per tutto lo scantinato.

Dunque laggiù, mi ero convinto, si erano nascosti anche i fantasmi che avevo sentito il primo giorno che visitammo quella casa. E li sentivo ancora, suonavano il piano insieme a me. Impauriti dal nostro arrivo, si erano rifugiati in quello scantinato; ma se avevano paura di noi, allora non dovevo averne paura io. Cosí continuai per anni (mi sembró un’eternità, ma furono solo due anni o poco più) a scendere giù nel basement, a giocare con le note basse, a fare il pirata nascosto nella nave in tempesta.

Arrivò poi il giorno in cui dovetti abbandonare per sempre il mio rifugio, il mio pianoforte, i miei fantasmi e la mia nave immaginaria. Ma era per salire su una vera nave – possibilmente senza tempesta: dovevamo trasferirci in Italia. Avevo allora cinque anni, ero già abbastanza grande, ma non avevo alcuna idea di cosa fosse né di dove fosse l’Italia. Dall’altra parte del mare, mi dissero i genitori, dove saremmo andati con una grande nave, un transatlantico. Con un grande balzo nello spazio-tempo dei miei ricordi.

Furono quelle per me le prime esperienze registrate e impresse nella memoria. Da allora in poi tante altre prime volte si sono succedute, dal primo giorno di scuola (con l’ingresso in classe dalla finestra, in braccio alla maestra... ma ne parlerò un’altra volta) alla mia prima partita ufficiale di calcio, dal primo bacio a una ragazza, alla prima guida di un’automobile...


Ci sono tante prime volte nel corso della nostra vita; si dice anzi che ogni giorno, per tutta la vita, si dovrebbe fare qualcosa “per la prima volta”, per non assuefarsi alle consuetudini quotidiane, per mantenere il cervello sempre elastico e prevenire la senilità. Spostare ogni tanto i mobili e le suppellettili di casa, cambiare i percorsi abituali, variare gli orari, intraprendere attività diverse... Facile a dirsi, ma poi nella pratica l’abitudine riprende il sopravvento e ci adagiamo di nuovo nella nostra quotidianità.

Chissà quando è stata l’ultima volta che ho fatto qualcosa per la prima volta? Intanto poco a poco iniziano ad arrivare anche le “ultime” volte, anche se di queste non ci rendiamo conto nella maggior parte dei casi. Quasi mai, direi. Questo concetto di “ultimo” mi venne in mente un giorno di primavera del 2005, in occasione dell’elezione al soglio pontificio del Cardinal Ratzinger, eletto Papa col nome di Benedetto XVI. Si parlava in casa dei nomi scelti dai vari pontefici, e si citavano tra gli altri i due predecessori di Ratzinger, Giovanni Paolo Primo e Giovanni Paolo Secondo. Mia figlia di quattro anni, pensando forse che si trattasse dell’ordine di arrivo di una gara, all’improvviso domandò: “E chi era Giovanni Paolo Ultimo?”

La cosa suscitò grande ilarità sul momento ma, ripensandoci successivamente, quell’aggettivo “ultimo”, inserito in un indefinito contesto temporale, mi creò un leggero turbamento, facendomi riflettere sul quel concetto. Spesso si sa chi o che cosa è ultimo: in una gara conosciamo il nome di chi si è classificato all’ultimo posto, vediamo chi sta in fondo a una lista o in coda a una graduatoria oppure, quando concludiamo un’attività, sappiamo cosa facciamo alla fine, in chiusura.

Foto © dreamstime.com

Ma quante azioni, quante cose, quanti eventi sono ultimi inconsapevolmente? Questa domanda si fa particolarmente attuale (e drammatica) per coloro che si approssimano alla vecchiaia. Tante attività che svolgiamo da giovani e da adulti ad un certo punto svaniscono, non ci sono più, la maggior parte delle volte senza che ce ne rendiamo conto. Quel momento di trapasso non viene percepito anche perchè spesso non si tratta di un momento, ma di un processo graduale, di una lunga e lenta dissolvenza. Come la vecchiaia, che poco a poco ci indebolisce il fisico: un piccolo acciacco alla volta, prima un ginocchio, poi una caviglia, poi la schiena, uno dopo l’altro finché alla fine non funziona quasi più niente. E all’improvviso ci ricordiamo che sino a poco tempo fa salivamo le scale di corsa, a due gradini per volta, ma da un po’ non riusciamo più a farlo. Sì, ma da quando, esattamente? E quando è stata l’ultima volta che ho corso per più di un’ora di fila? Quand’è che ho giocato l’ultima partitella a calcio? Che ho guardato un cartone animato insieme ai miei figli? O che li ho presi in braccio l’ultima volta? Non lo so. Non l’ho annotato sul diario, quella volta non mi rendevo conto che sarebbe stata l’ultima, per me era una delle tante, convinto che ce ne sarebbero state altre, come sempre. Se l’avessi saputo, l’avrei vissuta coscientemente, come quando si prende l’ultimo cioccolatino dalla scatola o si guarda l’ultimo programma in TV, prima di spegnere il televisore.

Forse, avendone consapevolezza, quell’ultima volta sarebbe stata più bella da vivere. O forse più angosciante, chissà: una prova in più che – per dirla ancora con Lucio Dalla – “passano i giorni e stan finendo tutti in fretta e in fila, non ce n'è uno che ritorni”. Finché altri prenderanno il testimone per volare verso il domani e perpetuare il ciclo.


©Louis Petrella

Dicembre 2021

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