Dai diamanti non nasce niente
dal letame nascono i fior.
Sono gli ultimi due versi del brano “Via del Campo” di Fabrizio De André, il cantautore genovese di cui a gennaio si commemorerà il ventesimo anniversario della morte.
Nonostante ciò che dice De André, la maggior parte di noi preferisce ricevere in regalo un diamante, piuttosto che del letame. Il letame è considerato un prodotto di scarto, un rifiuto, di cui sbarazzarsi, come l’immondizia, la spazzatura che di solito noi mariti gettiamo nei cassonetti. Ma il termine “rifiuto” significa anche rinuncia, rigetto, non accettazione, come il rifiuto d’amore che riceve il corteggiatore respinto, o il rifiuto di far realizzare sotto casa opere pubbliche che potrebbero avere localmente effetti negativi. Quest’ultimo atteggiamento viene anche chiamato “nimby”, acronimo inglese che sta per “Not In My Back Yard” (non nel mio cortile), la protesta di cittadini contro lavori previsti nel proprio territorio (il “cortile”), per il possibile impatto ambientale che avrebbero, a prescindere dall’utilità pubblica. Si verifica spesso in occasione di progetti per la costruzione di aereoporti, autostrade, siti industriali, discariche e impianti di smaltimento dei rifiuti.
Appunto, lo smaltimento dei rifiuti. Nessuno vuole impianti di smaltimento nel proprio cortile. Mai come negli ultimi tempi si è parlato così tanto di emergenza rifiuti, soprattutto in Italia. Abbiamo città invase dall’immondizia, con cassonetti stracolmi, marciapiedi intasati, cattivo odore, topi. Napoli, poi Palermo, ultimamente Roma. Non solo città, anche territori come la “Terra dei fuochi”, nel Casertano, o altrove, al nord come al sud, dove ogni tanto vanno a fuoco capannoni e discariche abusive.
Ma perché solo adesso? Cosa succedeva finora ai rifiuti? Possibile che in tutta la storia dell’umanità, solo ora ci si accorga del problema della spazzatura? In effetti, durante l’ultimo secolo gli esseri umani hanno prodotto più immondizia che nei milioni di anni precedenti. Si pensi alla natura: piante e animali non producono rifiuti, solo l’uomo lo fa. Ma agli albori della civiltà la popolazione era scarsa e dedita alla caccia. L’uomo primitivo, cacciatore e nomade, quasi non produceva rifiuti. L’unico residuo erano le carcasse degli animali cacciati, di cui non si buttava via quasi nulla: diverse parti, dalle pelli alle ossa, venivano sfruttate per produrre vestiario e attrezzi. Quel poco che avanzava si degradava nel giro di poco tempo e veniva assimilato dall’ecosistema come concime. Anche il nomadismo facilitava lo smaltimento dei rifiuti e delle deiezioni, poiché non si accumulavano in un unico posto.
I primi problemi, di smaltimento ma anche di igiene, iniziarono con la stanzialità e l’urbanizzazione. Per scongiurare epidemie, a Roma si costruirono i primi sistemi fognari, come la Cloaca Massima, e si crearono bagni pubblici con la realizzazione di acquedotti per servire le terme e le fontane di tutta Roma.
Nel Medioevo, periodo buio sotto molti aspetti, anche la gestione dei rifiuti e dell’igiene fu pessima. Molti cittadini tornarono nelle campagne per respirare aria pura ed evitare le acque contaminate dei pozzi. Le città erano colme di rifiuti di ogni genere che veicolavano malattie, come gli scarti dei mercati e delle lavorazioni artigianali. Non esistevano sistemi fognari efficienti, per cui le deiezioni si gettavano in strada. Gli animali facevano da spazzini, come i maiali che circolavano liberi per le strade. I rifiuti marcivano sotto il naso della gente, anche per l’ignoranza che esisteva all’epoca sul mondo invisibile dei batteri e dei virus. A quei tempi dominava la teoria dei “miasmi” secondo la quale le malattie erano connesse ai cattivi odori per cui, una volta eliminati questi, si pensava fossero scongiurate anche le malattie.
L’aumento della popolazione e il sovraffollamento delle città aggravarono sempre più la situazione, soprattutto con la rivoluzione industriale e la crescita degli scarti di produzione. Con l’avvento dei materiali non biodegradabili, come la plastica e le fibre sintetiche, durante gli anni del boom economico, lo smaltimento dei rifiuti ha iniziato ad essere non solo più una necessità di tipo igienico, sanitario, ma anche ecologico, per l’ingombro dei vari prodotti che venivano acquistati e gettati via, occupando sempre più suolo e deteriorando l’ambiente. Però quello fu anche il periodo in cui i progressi della scienza (soprattutto nei campi della microbiologia e della chimica) consentirono di affrontare il problema dello smaltimento dei rifiuti in maniera più efficace. Ma anche più economica, perché non solo gli spazi si esaurivano e l’impatto su ambiente e salute diventava catastrofico, ma anche i costi per lo smaltimento aumentavano sempre più. Si è così passati a poco a poco dall’indifferenza alla consapevolezza di dover cambiare. Smaltendo i rifiuti correttamente, per evitare epidemie e inquinamento di falde e terreni, riutilizzando e riciclando quanto più possibile.
Fino a pochi decenni fa non esisteva una vera e propria gestione dei rifiuti: venivano smaltiti negli inceneritori, bruciandoli, o nelle discariche, interrandoli. Ma ormai è chiaro a tutti che col termine “rifiuti” si indicano in realtà materiali di scarto con caratteristiche diversissime, che non possono essere considerati e smaltiti indiscriminatamente allo stesso modo. È per questo che si fa la raccolta differenziata, che permette all’industria del riciclo di lavorare al meglio. I rifiuti diventano una risorsa quando l’industria è in condizione di poterli riciclare per ricavarne oggetti nuovi senza estrarre materie prime. Se si mescolano carta, plastica, metalli e umido, diventa impossibile trarre valore dai rifiuti e poterli considerare come una risorsa. Con la raccolta differenziata dividiamo i rifiuti in indifferenziati, riciclabili (carta, plastica, vetro, metalli) e umido (scarti alimentari). Ci sono poi anche particolari categorie come i rifiuti ingombranti, industriali ed elettrici. L’Italia è passata dal 10% di raccolta differenziata degli anni novanta al 52% attuale. Il 48% di immondizia che rimane è chiamata “indifferenziata”, di cui meno della metà (il 40% circa) viene usato come combustibile negli inceneritori che recuperano energia. Il restante indifferenziato va in discarica, anche se per le leggi europee non dovrebbe. Ovviamente i rifiuti riciclabili non devono andare a incenerimento, cioé venire bruciati. Questi rifiuti possono appunto essere riciclati o recuperati in qualche modo. I rifiuti che vanno ad incenerimento sono quelli dell’indifferenziato, ma non quelli umidi, contententi acqua: più è alta la quantità di acqua nei rifiuti, meno questi sono adatti alla combustione. Per esempio gli scarti alimentari sono molto umidi, con alto contenuto di acqua, e quindi abbassano la capacità di combustione, con maggiori costi e danni per l’ambiente. Da questi scarti umidi si può invece produrre compost, una sorta di terriccio che migliora le prestazioni dei terreni agricoli. Fare bene la raccolta differenziata comporta dunque anche un miglioramento energetico e la diminuzione dei costi di gestione degli inceneritori, oltre che la diminuzione della quantità di rifiuti che vi vanno a finire.
L’obiettivo dell'Unione Europea è la cosiddetta “economia circolare”, quasi un ritorno all’utopia delle origini, dell’uomo cacciatore. L’economia circolare si basa sulle tre “R”: riciclare, riutilizzare e ridurre, sprecando e disperdendo il meno possibile nell’ambiente (in qualunque forma: solida, liquida o gassosa). L’obiettivo europeo prevede che entro il 2030 la raccolta differenziata debba raggiungere l'80% mentre non più del 10% potrà più andare in discarica. L’Italia però è ancora molto indietro, ed è per questo che se ne parla molto di più nel Bel Paese che nel resto d’Europa. Per fare un esempio, in Germania il 64% dei rifiuti viene riciclato, il 35% viene bruciato e solo l’1% finisce in discarica. Anche in Italia ci sono tuttavia differenze tra regione e regione: in Lombardia il 39% dei rifiuti urbani va a incenerimento e solo il 4% in discarica, in Sicilia non ci sono inceneritori e l'80% dei rifiuti finisce in discarica. La Lombardia è vicina all’economia circolare, con il recupero energetico dai rifiuti, la raccolta differenziata e il ricorso minimo alle discariche. Dopo il disastro di Seveso del 1976, la fobía dell’incenerimento e la paura della diossina emessa dagli inceneritori portarono alla realizzazione di tantissime discariche in tutta Italia. Nel corso degli anni diventò però chiaro che anche le discariche avevano un grosso impatto ambientale e occupavano eccessivo spazio. Si capì che le discariche non potevano sostituirsi agli inceneritori e così riprese la costruzione di questi ultimi. Gli inceneritori di allora non sono ovviamente paragonabili a quelli moderni, che vengono anche chiamati “termovalorizzatori”, che hanno un sistema di trattamento dei fumi che prima non esisteva, e che abbinano l’incenerimento dei rifiuti anche al recupero di energia: tramite la combustione dei rifiuti si produce energia elettrica e calore. Gli impianti più moderni distribuiscono anche acqua calda per i termosifoni delle case. Se proprio non riusciamo a riciclare gli scarti, tanto vale trasformarli in energia, anziché nasconderli sotto terra. Un altro vantaggio è che tramite l’incenerimento (anzi, la termovalorizzazione) si possono smaltire rifiuti a rischio biologico, igienico e sanitario, come quelli ospedalieri.
I paesi del Nord Europa costruiscono termovalorizzatori in mezzo alle città. Nel centro di Copenaghen sorge il termovalorizzatore di Copenhill, con emissioni minime, che con la combustione dei rifiuti fornisce elettricità a 62 mila abitanti e ne riscalda 160 mila, situato all'interno di un parco, sulle cui pareti si può fare arrampicata e sul cui tetto in discesa si può sciare tra gli alberi. Leggi europee regolano oggi le emissioni dei termovalorizzatori per tutelare l’ambiente e la salute dei cittadini. La temperatura di combustione non puó essere inferiore a 850 gradi, per ridurre la formazione di diossine che, tuttavia, anche se in quantità minime, vengono comunque emesse. Le diossine sono cancerogene e bioaccumulabili, possono cioé risalire la catena alimentare fino all’uomo: un animale mangia erba dai terreni contaminati da diossine, l’uomo mangia alimenti prodotti da quell’animale, e si ammala. Perciò, anche se i termovalorizzatori ormai producono pochissima diossina rispetto al passato, quella poca prodotta si bioaccumula e resta negli anni. Perció vivere nei pressi di un termovalorizzatore può essere in effetti pericoloso, da cui la sindrome “nimby”. Va però anche ricordato che i termovalorizzatori non sono né l’unica né la maggiore fonte di produzione di diossine. Nel 1990 l’incenerimento dei rifiuti era responsabile del 20% delle emissioni, mentre oggi lo è per meno del 3%. La combustione domestica (camini e stufe delle case) è invece passata nello stesso periodo dal 35% di emissioni nel 1990 al 40% di oggi. Gli inceneritori quindi inquinano e producono diossine meno di quanto facciano il riscaldamento domestico e l’industria. Tanto per fare un altro esempio, i botti di Capodanno a Napoli producono tanta diossina quanto 120 inceneritori in un anno.
Ma per completare l’economia circolare manca ancora un passaggio: il riciclo. La raccolta differenziata dei rifiuti non è la soluzione, non è un fine, è solo uno strumento. Abbiamo già detto che gli italiani differenziano il 52% della spazzatura: carta, plastica, vetro, metalli, legno, materiale organico. La quantità di materiali da riciclare aumenta di giorno in giorno, ma purtroppo l’offerta supera la domanda dell’industria e non cresce il mercato dei prodotti riciclati. Carta e cartone vengono selezionati dalla raccolta differenziata, ma non ci sono più spazi negli impianti di smaltimento e i magazzini si riempiono a dismisura. La carta non trova collocazione, la domanda delle cartiere italiane è molto più bassa rispetto all’enorme offerta della carta raccolta dai cittadini. Lo stesso discorso vale per il vetro, di cui viene riciclato solo quanto corrisponde al fabbisogno, mentre le quantità eccedenti finiscono in discarica. Inoltre, le cartiere che usano carta riciclata hanno bisogno di inceneritori per eliminare la spazzatura che i disattenti mescolano con la carta (come le buste di plastica che avvolgono le riviste o la plastica dei cartoni del latte), ma i comitati “nimby” ne bloccano la realizzazione. Le aziende di selezione e riciclo si riempiono perciò di plastica che non riescono a vendere, sono piene anche di tutti i rifiuti mescolati con la plastica e non trovano inceneritori o discariche disponibili ad accettare quel materiale. Gli impianti si intasano, i costi vanno alle stelle, aumentano i rischi di incendi e si favorisce il business criminale, che si sbarazza dell’immondizia incendiandola in capannoni abusivi o esportandola clandestinamente. Dal 2014 a oggi ci sono stati oltre 300 incendi, dolosi o colposi, a impianti di trattamento dei rifiuti, discariche, sia legali che abusive, impianti di compostaggio, inceneritori. Ma non tutti i casi sono riconducibili alla malavita. Per il fatto che gli impianti sono strapieni di materiali infiammabilissimi come la plastica e la carta, anche un banale incidente può trasformarsi in un problema ambientale enorme e in un rischio altissimo per chi ci lavora.
Industria, ambiente e salute devono viaggiare nella stessa direzione, quella dell’economia circolare, la sola che può farci uscire dall’emergenza. Sviluppare le tre “R” significa innanzitutto sviluppare il mercato dei prodotti riciclati, per evitare l’accumulo dei rifiuti differenziati, che provoca inquinamento e favorisce la criminalità (con le discariche abusive e gli incendi dei capannoni). Si devono inoltre superare le resistenze e i pregiudizi della sindrome “nimby” tramite una corretta informazione, vanno rispettate le leggi in materia e vanno infine sfruttate le tecnologie più innovative, per avere impianti di smaltimento moderni che, anziché roghi inquinanti, producano energia sana e pulita.
Dopotutto aveva ragione De André a proposito del letame, l’immondizia è una grande risorsa nel posto sbagliato: non sfruttare economicamente i rifiuti è come gettare i soldi nella spazzatura. Ogni volta che mia moglie mi ordina di buttare l’immondizia, mi piace credere che sto almeno collaborando alla produzione di energia pulita e alla salvaguardia dell’ambiente, anche se pago per farlo. Mi rifiuto di pensare che, buttando la spazzatura, sto solo gettando via il mio denaro nel cassonetto. No. Mi rifiuto.
© Louis Petrella
dicembre 2018
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