Quarantamila. Immaginiamo 40.000 uomini, donne e bambini uccisi in dieci mesi, da ottobre 2023 ad agosto 2024, di cui oltre 15.000 minori. Quattromila persone al mese assassinate dalle bombe israeliane. Con tutto il resto: infrastrutture civili distrutte, due milioni di palestinesi sfollati e privati di acqua e di assistenza sanitaria. Numeri che crescono ogni giorno e che stentiamo a immaginare, nell'Europa del XXI secolo. Il dieci percento della popolazione totale della striscia di Gaza uccisa dalla rappresaglia israeliana dopo l'attacco terroristico del 7 ottobre scorso. Da quando cioè Israele ha iniziato quella che considera la sua vendetta, sull'intera popolazione palestinese. Ma più che vendetta, in realtà sembra una escalation di azioni militari iniziate almeno mezzo secolo fa. La Cisgiordania è sotto il dominio militare israeliano dalla Guerra dei Sei Giorni del 1967, mentre l'Autorità Nazionale Palestinese governa parti del territorio dal 1994. Le tensioni sono aumentate da quando sono scoppiati i combattimenti tra Israele e il gruppo terroristico Hamas, cha ha sede nella Striscia di Gaza e ha preso il potere nell'enclave nel 2007. E quasi mezzo milione di coloni israeliani vivono in mezzo a circa tre milioni di palestinesi in Cisgiordania, in insediamenti considerati illegali dal diritto internazionale.
“Mai più”, aveva dichiarato il mondo all’indomani della Seconda guerra mondiale con i suoi circa 55 milioni di morti civili, di fronte all’abissale orrore dell’Olocausto. Tuttavia, nel 2023, i propositi morali e legali del “mai più” sono andati a pezzi. Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre Israele ha lanciato una rappresaglia che è diventata una punizione collettiva, con bombardamenti deliberati e indiscriminati sui civili, negando l’assistenza umanitaria e pianificando la carestia. Ma la reazione del governo di Tel Aviv al 7 ottobre sembra che manchi di una strategia per quanto riguarda Gaza, a meno che l’obiettivo non sia proprio la distruzione totale di Gaza. I continui bombardamenti e il fuoco mirato dei cecchini servono a questo scopo. Hamas non è ancora stato sradicato e molti ostaggi israeliani sono ancora sotto le bombe, ancora nelle mani dei terroristi. L'unico risultato che Netanyahu e la destra fondamentalista israeliana hanno prodotto è un enorme disastro umanitario: in questi dieci mesi Israele ha sganciato su Gaza più bombe di quante ne erano state sganciate su Londra, Hiroshima e Dresda durante la seconda guerra mondiale.
Questa in corso a Gaza è una delle più sanguinose guerre del XXI secolo; il tasso e il ritmo delle morti, così come le condizioni di vita dei sopravvissuti, mettono in ombra persino i conflitti in Iraq, Ucraina e Myanmar, come ammette la stessa stampa israeliana. Oltre alle decine di migliaia di palestinesi uccisi, il 70 percento del tessuto urbano di Gaza è stato raso al suolo, università e scuole sono state bombardate, gran parte della rete ospedaliera è stata distrutta. Gaza oggi appare una terra desolata, inabitabile. Non riuscendo a espellere la popolazione verso il Sinai, l’Idf (l’esercito israeliano) l’ha ammassata a Rafah, dove il valico chiuso non consente né l’ingresso di aiuti umanitari né la fuga verso l’Egitto. Il molo che era stato proposto dagli Stati Uniti per far giungere gli aiuti umanitari via mare è stato effimero, è durato poco tempo.
L'esistenza dello Stato di Israele, grazie al sostegno internazionale di cui gode, alla sua forte economia e alle sue armi all'avanguardia, non è in pericolo. Ciò che è in pericolo, invece, è l'esistenza del popolo palestinese, che non può difendersi.
Gaza e la Cisgiordania, secondo le risoluzioni internazionali, appartengono al territorio palestinese. L’occupazione dei territori palestinesi da parte dei coloni è stata condannata dall’ONU e persino dagli Stati Uniti. Gli invasi sono i palestinesi, gli invasori sono gli israeliani. E non dall'8 ottobre, ma da decenni: la ragione principale del terrorismo è l'aumento degli insediamenti illegali nei territori occupati, con gli israeliani che occupano le case, che gettano cemento nei pozzi d'acqua, tagliano gli alberi e distruggono i frutteti, occupano le case palestinesi. Non solo genocidio ma anche ecocidio quindi: ulivi bruciati, frutteti distrutti, acque inquinate...
L'infinita carneficina di Gaza è sotto gli occhi di tutti. C’è un’accusa ufficiale di genocidio verso Israele, presentata dal Sudafrica e appoggiata da diversi altri Paesi. Ogni giorno decine di persone, molte delle quali donne e bambini indifesi, muoiono e vengono mutilate per mano dell'esercito israeliano. Il terribile attentato compiuto da Hamas il 7 ottobre 2023 non può essere una giustificazione, anche perché come dicevamo quella israelo-palestinese è una storia di guerra, violenza e ingiustizia che dura da quasi ottant'anni.
Il massacro in corso a Gaza, col passare del tempo, sprofonda sempre più in territori inesplorati di abiezione. Non è la prima volta che accade alla nostra generazione: negli anni Novanta ci sono stati terribili genocidi, come in Ruanda o a Srebrenica. Ma questa volta è diverso: i massacri sono compiuti dai nostri “amici”, alleati, fratelli, a capo di reti economiche, politiche e culturali che arrivano fino alle stanze di chi potrebbe fermare il massacro. E così la distruzione di Gaza si accompagna alla reticenza di gran parte della stampa europea: migliaia di persone muoiono e vengono mutilate. Raramente si è visto qualcosa di simile, così, sotto gli occhi di tutti. Tra decenni, in molti si chiederanno dove eravamo, cosa stavamo facendo, cosa stavamo pensando mentre decine di migliaia di persone finivano sotto le macerie. Ciò che è accaduto il 7 ottobre è la vergogna di Hamas, ciò che è accaduto dall'8 ottobre in poi è la vergogna di tutti noi. Eppure c'è una consapevolezza diffusa che la comunità occidentale non stia facendo il suo dovere riguardo ai massacri di Gaza, che colpe e tragedie vengano distribuite sulla base di pregiudizi indicibili.
Viene dato un grande sostegno all'“autodifesa” – perseguita peraltro uccidendo migliaia di civili inermi e disperati - di Israele, che si definisce una democrazia ma che scende allo stesso livello dei terroristi, comportandosi come loro, nel segno di “occhio per occhio, dente per dente”.
Israele è stato condannato per crimini di guerra e non rispetta le decisioni di organi internazionali, come l’OMS, l’ONU o la Corte di Giustizia dell’Aja. I media occidentali stendono veli su quanto accade in Israele, anche perché la stampa straniera non è benvenuta, troppi occhi indiscreti possono dare fastidio in un Paese che si ritiene parte delle democrazie occidentali ma dove i diritti umani e civili vengono troppo spesso calpestati.
Ogni critica nei confronti di Israele e delle sue politiche aggressive viene tacciata di antisemitismo, se non addirittura di antisionismo (per quanto lo stesso “sionismo” viene considerato come una forma di razzismo e discriminazione razziale, secondo la risoluzione 3379 dell’ONU del 1975), come se lo scudo del semitismo e dell’Olocausto del XX secolo dessero carta bianca al governo di Tel Aviv di restare impunito. Eppure è stato spesso lo stesso popolo israeliano a scendere in piazza e a manifestare contro il proprio governo. Quello che accade nel Paese, anche nei confronti dei propri cittadini, come dicevamo non viene diffuso all’esterno. Ma ci sono i media israeliani che dovrebbero aiutano a capire: come i giornali israeliani Times of Israel o Haaretz, quest’ultimo che riporta ad esempio casi di stupro negli hotel dove il governo mette i rifugiati, mai riportati dai media occidentali. Centinaia di casi di violenza sessuale segnalati negli alberghi che ospitano sfollati israeliani dalle zone di confine con Gaza e col Libano. Così come, sempre secondo Haaretz, persino i molestatori stranieri trovano rifugio in Israele: centinaia di rabbini, insegnanti e altre figure accusate e condannate per abusi sessuali all'estero vi hanno trovato protezione: una società che accoglie stupratori e pedofili, dove meno del 10% di uomini e donne pensa che lo stupro coniugale sia un problema.
La distruzione di Gaza simboleggia quindi il fallimento morale dei valori insediatisi nella nostra società dal secondo dopoguerra: il fallimento nell’impegno incondizionato verso l’universalità e il diritto internazionale delle popolazioni, nell’impegno del “mai più”. I princìpi sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite, dalle Convenzioni di Ginevra, da quelle sul genocidio e sui diritti umani sono stati traditi. E la responsabilità non è solo di Israele, ma anche dei suoi alleati, come con l’uso del potere di veto da parte degli Stati Uniti per paralizzare per mesi il Consiglio di sicurezza sulla risoluzione per il cessate il fuoco. Sotto accusa anche “i doppi standard” di Paesi europei come Germania e Regno Unito che hanno giustamente protestato contro i crimini di guerra della Russia e di Hamas ma contemporaneamente hanno rafforzato l’operato di Israele. Il tradimento del diritto internazionale viene proprio da coloro che lo hanno messo in piedi alla fine della Seconda guerra mondiale.
Nel corso dell’Ottocento, la popolazione che viveva nel territorio oggi occupato da Israele, Gaza e Cisgiordania – di cui la Palestina ricopriva la parte maggiore - era composta dal 5 al 10% di ebrei, il resto erano arabi, sia musulmani che cristiani. A quell’epoca questa terra era parte dell'Impero Ottomano, mentre la maggioranza degli ebrei viveva sparsa nel resto del mondo, a seguito della diaspora iniziata già prima della conquista dell’antica Roma. Il conflitto israelo-palestinese risale alla fine del XIX secolo, con l'aumento del nazionalismo arabo ed ebraico (e la nascita del movimento sionista fondato da Theodor Herzl), culminato nella creazione dello Stato di Israele (inteso come casa esclusiva per soli ebrei) nel 1948 e proseguito con le varie guerre arabo-israeliane. Dopo la guerra del 1967, Israele ha occupato Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est, territori rivendicati dai palestinesi per un futuro stato. Gli accordi di Oslo del 1993 tentarono di stabilire un percorso verso la pace, ma i negoziati sono stati spesso ostacolati da violenze e cambiamenti politici. Il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin venne assassinato nel 1995 per aver provato a mettere in pratica gli accordi di Oslo, dialogando col leader dei Palestinesi Yasser Arafat. Bill Clinton venne “punito” un paio di anni dopo per aver cercato di favorire quel dialogo.
Nonostante vari tentativi di negoziazione, il processo di pace è in stallo, con l'espansione degli insediamenti israeliani e la divisione politica tra Fatah e Hamas. La soluzione più discussa è la creazione di uno stato palestinese indipendente accanto a Israele, con confini basati su quelli del 1967 e accordi su Gerusalemme e i rifugiati. Ma sono in troppi, in Israele e in Occidente, a rifiutare uno stato palestinese.
Resta il fatto che a Gaza è in corso una pulizia etnica, e l’unico modo per fermare Netanyahu sembrerebbero essere dure sanzioni che fermino l’aggressione israeliana e l’espansione delle sue colonie illegali nei territori occupati. Ma abbiamo già visto che Israele non rispetta le decisioni di organi internazionali, e che troppo spesso gli USA mettono il veto sulle risoluzioni che lo riguardano. Per fermare questa involuzione mondiale, e uscire dal vortice in cui stiamo ripiombando (oggi c’è Israele, ma c’è anche la Russia, e poi domani chissà chi altro) va riformato il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, in modo che gli Stati membri permanenti non possano brandire il loro potere di veto e impedire così la protezione dei civili a vantaggio di alleanze geopolitiche. Forse nel dopoguerra e nella seconda metà del XX secolo siamo stati troppo ottimisti, riguardo all’evoluzione della società e dei diritti umani.
Dobbiamo tornare al punto di partenza e ripartire daccapo. D’altronde sappiamo che la Storia procede a spirale, va avanti e torna indietro, con la speranza che ogni volta “ripassi” a un livello un po’ più alto di prima, come una vera spirale, facendo bagaglio dell’esperienza passata. Sempre che quell’esperienza non sia stata distrutta e incenerita dalle bombe, come gli edifici di Gaza.
©Louis Petrella
Agosto 2024
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