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Camminando

Aggiornamento: 27 feb 2019

Da quasi un anno la città di Gent ha introdotto un nuovo piano di circolazione, il “mobiliteitsplan”. Un piano che ha reso molto più difficile, se non impossibile, l’accesso al centro della città da parte delle automobili, tra divieti di transito, sensi unici, l’intero centro storico trasformato in isola pedonale, ma anche tariffe salatissime per i parcheggi.

Il piano ha suscitato reazioni contrastanti, generalmente positive per ecologisti e amanti della bicicletta, che hanno così molto più spazio a disposizione e anche molta più tranquillità nel pedalare attraverso il centro di Gent, una volta abituati alle vibrazioni del pavé e addestrati a saltare i binari del tram, senza lasciarci la ruota.

D’altro canto, chi è costretto a usare l’auto per andare in centro, come le ditte di consegne, ha molta più difficoltà, dovendo compiere percorsi molto più lunghi, intasando le circonvallazioni (i ring) attorno al centro, con relativo disagio anche per gli abitanti di questi quartieri, che si sono visti aumentare il traffico sotto casa.

Foto © Het Nieuwsbald / de Gentenaar

Per quanto riguarda me, la chiusura al traffico del centro di Gent mi ha fatto riscoprire dopo tanti anni la dimensione del cammino. Io non sono un gran patito della bicicletta (anche se in epoca universitaria e nei primi anni lavorativi attraversavo in bici Milano, in lungo e in largo, ogni giorno), forse perché me ne hanno rubate così tante che da tempo mi terrorizza solo l’idea di dover lasciare la bici da qualche parte, incustodita. Perciò ultimamente, quando devo recarmi nel centro di Gent, ho preso l’abitudine di andarci a piedi. Dalla mia casa di Gentbrugge fino alla cattedrale di Sint-Baafs sono tre chilometri e mezzo, quarantacinque minuti di passo regolare, parola di Google Maps.

E uno degli itinerari che mi suggerisce Google è pure molto suggestivo, perchè si snoda per la maggior parte lungo sentieri pedonali e persino lungo un incantevole e tranquillo corso d’acqua (il Visserijvaart). Non è il più breve (ci sarebbero altri percorsi un po’ più corti, ma su strade normali) ma è sicuramente il più attraente, soprattutto quando non sono troppo assillato dalla fretta e quando ho voglia di meditare tranquillamente, senza dover scansare automobili e biciclette. Uno dei vantaggi del camminare a piedi per la città è proprio questo: si può distrarsi, fantasticare e variare l’itinerario a seconda dell’umore, del clima, del tempo a disposizione, delle commissioni da fare lungo la strada.


In effetti non è Gent la prima città che percorro a piedi, né mi ci è voluto il suo mobiliteitsplan per invitarmi e spronarmi alla camminata. Sin dall’adolescenza ho accumulato chilometri e chilometri di scarpinate attraverso diverse città, all’inizio stimolato dai vari itinerari delle guide verdi Michelin (Parigi, Roma, Londra, Venezia, New York...) poi sempre più autonomo e indipendente, coi percorsi che mi creavo da solo e che variavo anche in base all’ispirazione del momento. E, affascinato dalla magia delle passeggiate urbane da turista, ho cominciato a percorrere a piedi sempre più spesso anche le città in cui abitavo, in particolare Milano. Mi sono così reso conto che la propria città può essere una miniera di ricordi, di scoperte e di esperienze che solo il cammino è in grado di trasmetterci. Ogni residente ha un repertorio di percorsi diversi nella propria città, in diversi momenti della sua giornata e anche della sua vita, legati alla sua esperienza quotidiana: il quartiere in cui abita, lavora o studia, dove si trovano i luoghi che frequenta, la biblioteca, il barbiere, dove vivono – o vivevano – i suoi amici. Ci sono anche i quartieri sconosciuti, in ombra, dove non è mai stato o dove ha paura di andare.

L’attrazione dei vari quartieri e dei vari itinerari dipende quindi da fattori molto personali, vicende vissute, ricordi d’infanzia o di gioventù, momenti speciali di piacere con qualcuno, in un bar, in un locale, dove torniamo spesso per rinnovare l’emozione di allora, o dall’atmosfera di una strada, di cui magari ci emoziona solo il nome. Come la strada dove abitava la compagna di scuola di cui ero innamorato: quando scoprivo una via con lo stesso nome in un’altra città, andavo subito a vedere com’era fatta quella strada... Chi conosce la città, spesso si meraviglia delle scelte che facciamo, ci prende in giro o si interroga sui nostri strani gusti.


Per anni ho dunque bighellonato senza meta, secondo itinerari casuali e personali, guidato dall’intuizione del momento, tornando spesso sui miei passi o deviando all’improvviso se non mi convinceva ciò che vedevo, e camminando mi guardavo intorno, studiando la gente che incrociavo. Andando a zonzo per una città ci si può sentire sociologhi e, con uno spirito d’osservazione acceso e magari un po’ di creatività, ci si può trasformare in brillanti romanzieri o giornalisti, soprattutto se abbiamo il riflesso e l’intuizione di annotare le nostre osservazioni, magari fermandoci a un bar per un caffé.

Ho conservato le mie agende, piene di note e di appunti presi durante le mie camminate, lontano dai banali circuiti turistici. Come a Parigi, per le viuzze di Belleville o nei pressi del Canal St.Martin, o nel Sentier, o al mercatino della Rue Mouffetard. Oppure a Roma, nel tranquillo quartiere tra il Celio e le Terme di Caracalla, o sull’Aventino, luoghi dove non si crederebbe neanche di trovarsi nel cuore di una capitale europea. Annotavo le impressioni che mi suscitava la gente del luogo, gli abitanti del posto, le signore con la borsa della spesa o i bambini che giocavano nei giardinetti, con vista sul Colosseo o sulla Tour Eiffel. Per me, cresciuto nella periferia milanese tra casermoni popolari, era inconcepibile che una vita quotidiana potesse svolgersi all’ombra di monumenti o di siti storici. Come ebbe a dire la scrittrice milanese Paola Capriolo, per me la vita “normale” era tra palazzoni e quartieri residenziali di periferia; tutto il resto era per le vacanze.

Senza arrivare agli estremi di Venezia, dove passeggiare tra calli, campi e campielli evoca ad ogni metro atmosfere di sogno e ci trasporta in altre epoche, anche solo muoversi a piedi in una città qualsiasi, con una destinazione ben definita, può rivelarsi in sé un viaggio nel tempo. Specialmente quando partiamo dalla periferia e siamo diretti verso il centro, attraversiamo il tempo col mutare degli edifici, dalle case più moderne, ai blocchi abitativi del dopoguerra, dai palazzi stile Novecento agli eleganti edifici neoclassici o anteriori, fino al centro storico, con le sue vestigia medievali o ancora più antiche. E lungo la strada, davanti ai bar e ai negozi, o all’uscita delle scuole, cambia anche la fisionomia delle persone che incrociamo, con le loro attività, i loro passatempi, le loro chiacchiere, che riusciamo a malapena a intercettare.


Oltre ai bar e ai mercati, i luoghi di ritrovo più frequenti per gli abitanti di una città sono i giardini, i monumenti, le stazioni e, quando ci sono, l’acqua, o un’altura. Ogni città ha i suoi luoghi magici, poli d’attrazione che spesso attirano e guidano percorsi e itinerari: l’ansa di un fiume, un lungolago o un lungomare, o una collinetta col suo belvedere. L’acqua che scorre tra le case ha sempre il suo fascino: come una vita che scorre, l’acqua passa ma assicura continuità restando sempre se stessa: la vista sul fiume, il panorama dal ponte o dalla riva è sempre uguale a se stesso, anche se ogni goccia d’acqua che scorre è diversa da tutte le altre, quelle passate e quelle future.

Il fascino del camminare sta nel poter usare tutti i cinque sensi, avendo così una piena percezione della realtà, come una forma di meditazione “dinamica”. In auto, sul bus, sul treno o in bici, sfruttiamo solo la vista, lo sguardo attraverso il finestrino che mantiene la distanza dal mondo e ci lascia passivi. Invece, passeggiare in un parco o accanto a un corso d’acqua ci permette di coinvolgere tutti i nostri sensi, anche quelli che di solito restano inutilizzati: col tatto possiamo toccare la corteccia degli alberi o bagnarci le mani alle fontane, con l’olfatto sentiamo i profumi che ci vengono dalla natura. Se camminiamo in zone tranquille della città, o meglio ancora fuori dai centri urbani, possiamo godere anche dell’udito, allietato dal cinguettío degli uccelli, dal gorgoglío delle fontane, dal suono dei propri passi.


Andando a piedi siamo anche più inclini a godere del tempo presente e a non sottometterci alla fretta, che governa la vita dei nostri tempi. Una vita, quella di oggi, che ci costringe tra l’altro all’immobilità perenne, col corpo fermo e circondato da protesi (sedie, poltrone, scrivanie, sedili, pedali, telecomandi, mouse e tastiere): l’energia che consumiamo è più nervosa che fisica. Camminare è invece un’attività corporea che, soprattutto sulle lunghe distanze, impegna respiro, sforzo, volontà e coraggio di fronte alle difficoltà del percorso. Andare a piedi riduce la grandezza del mondo alle dimensioni del nostro corpo, non solo per quanto riguarda i cinque sensi ma anche nel percepire le nostre forze e i nostri limiti, affidandoci unicamente alla nostra resistenza fisica. Essendo coscienti della nostra vulnerabilità, siamo quindi anche più prudenti e più disponibili. I camminatori non hanno l’arroganza degli automobilisti o l’egoismo dei passeggeri aerei (imbarchi prioritari, posti più comodi...), perché stanno sempre ad altezza d’uomo, hanno i piedi per terra e sentono a ogni passo la rugosità e l’asprezza (fisica e metaforica) del mondo. Toccando il terreno, hanno un rapporto col viaggio totalmente diverso dall’automobilista, che ingaggia una lotta, a volte mortale, per concluderlo al più presto e giungere prima a destinazione.

Camminando, siamo noi che comandiamo all’orologio e al calendario, indipendenti dai ritmi sociali, non ci lasciamo stressare dal tempo. Anzi, siamo noi i padroni del tempo, possiamo spendere ore per visitare villaggi, aggirare laghi, costeggiare fiumi, arrampicarci su colline, attraversare boschi, fermarci a osservare animali o monumenti... Andando lenti, uscendo dal ritmo e dallo stress della vita moderna, ci disinteressiamo delle ultime notizie dal mondo, e restiamo offline. Possiamo riprendere fiato, rallentare e prendere (non “perdere”!) tempo. La perdita di tempo è oggi controcorrente, come il silenzio, perché si contrappone alla fretta, all’efficienza, all’impegno totale, come quello di essere perennamente disponibili, coi cellulari sempre accesi e online.

Camminare diventa quindi un atto quasi nostalgico, di resistenza nei confronti di tutti i mezzi di trasporto di cui disponiamo oggi e dei voli low-cost che ci possono portare ovunque nel mondo con facilità. Tra l’altro, ormai persino le visite turistiche e culturali si possono fare virtualmente e comodamente in poltrona, dal computer o dal cellulare. Una volta si camminava per necessità, oggi lo si fa più che altro per hobby, come attività del tempo libero, per cercare tranquillità e silenzio.

In un articolo di tre anni fa su queste stesse pagine (“Silenzio, si aspetta”) avevo già parlato del valore della perdita di tempo e del silenzio, ricordando come - oltre alla velocità - la modernità ci abbia anche regalato la cultura del rumore: ovunque un telefonino che squilla, una musica che rimbomba da un altoparlante, un vociare di persone... L’unico silenzio che la società moderna conosce, e di cui è terrorizzata, è quello del guasto alla macchina, dell’interruzione delle comunicazioni, del blackout.

Oggi il silenzio è una risorsa morale, un modo per raccogliersi in se stessi, che richiede sforzo per essere trovato, che va cercato volontariamente lontano dai luoghi battuti della “civiltà”. Una campagna, un monastero, un bosco, un parco, un giardino. Nel silenzio di questi luoghi siamo più capaci di ritrovare pace interiore e forza d’animo, molto spesso indispensabili quando dobbiamo prendere decisioni difficili. Anche perché sono tutti luoghi raggiungibili soprattutto a piedi. Ma meglio se da soli: silenzio e riflessione non si addicono granché alle gite in compagnia. È soprattutto il cammino solitario che ci rende liberi e padroni di noi stessi. Rousseau diceva di non essersi mai sentito così vivo e così “se stesso” come nei momenti in cui viaggiava a piedi da solo. La marcia solitaria è contemplazione del mondo all’insegna della libertà: soltanto da soli siamo davvero liberi di fermarci o proseguire, di andare dritti o svoltare, a destra o a sinistra, di procedere all’andatura che vogliamo.

Solitudine, silenzio, lentezza. Tutte caratteristiche, soprattutto le ultime due, che il viaggio moderno sta perdendo. Le strade di oggi sono fatte sempre più per la velocità, per essere aggredite da pneumatici, che schiacciano imperturbabili tutto ciò che oltrepassano. Il concetto di strada è peraltro legato alla civiltà: quando non sono uno spazio urbano ricavato tra edifici e costruzioni, le strade sono ferite arrecate alla Natura dagli esseri umani. Ferite che non vengono invece lasciate dagli animali, le cui tracce nell’ambiente sono impercettibili e poco invadenti, così come lo sono d’altronde quelle dei camminatori rispettosi, i cui piedi non hanno l’aggressività dei veicoli e al cui passaggio la Natura resta pertanto indifferente.

Le strade sono un’entità antichissima, risalente ai primi ominidi. Ma solo da poco sono dominate da veicoli e povere di pedoni. I nostri antenati erano costretti a camminare per spostarsi, anche per lunghi tragitti, mentre oggi per noi camminare è diventata una scelta, come abbiamo visto. E purtroppo anche gli spazi si adattano di conseguenza: ormai chi vuole andare a piedi deve vedersela con autostrade e superstrade che tagliano i percorsi, mentre i vecchi sentieri sterrati vengono asfaltati o comunque adattati per permettere alle auto e ai fuoristrada di penetrare nel bosco o nella foresta.

Spesso per promuovere turisticamente una zona si creano infrastrutture stradali che non tengono conto dei pedoni a meno che non ci si accontenti di itinerari dedicati, già tracciati e predefiniti. Ma di spazi indefiniti, quelli in mezzo alla Natura, quelli che provocano sorprese e scoperte, ce ne sono sempre meno. L’industria turistica, per rendere fruibili dal pubblico luoghi rari e preziosi, alla fine li banalizza, ne distrugge l’atmosfera e il fascino. Esistevano tanti luoghi magici, cui si giungeva dopo ore di cammino, che ci garantivano solitudine, silenzio, bellezza, invasi ormai da masse motorizzate (e chiassose) che vi arrivano facilmente grazie alle nuove strade.


Ed è qui, in uno di questi luoghi, che si conclude la mia passeggiata che avevo intrapreso verso il centro di Gent, grazie al mobiliteitsplan. Tornando a casa la prendo larga, costeggio il Visserijvaart e poi la Schelda, finendo il mio giro nel Gentbrugse Meersen, la zona verde e paludosa nell’ansa del fiume. Vivendo a Gentbrugge, mi sono spesso recato al Gentbrugse Meersen, che dista dieci minuti di cammino da casa mia. Passeggiavo nella macchia, tra le paludi e tra i boschi di betulle e ontani, mi sedevo con un buon libro a leggere su una delle rare panchine lungo i sentieri sterrati, e trascorrevo qualche ora di tranquillità e rilassamento in mezzo alla Natura.

Be’, ma perché uso il passato? Ci vado ancora ogni tanto, dopo tutto. Il problema (mio, visto che sono un po’ misantropo) è che il Gentbrugse Meersen, come le aree naturali di cui parlavo prima, è stato di recente trasformato, valorizzato e rilanciato come uno dei grandi polmoni verdi di Gent. Sono state costruite piste ciclabili, percorsi guidati, aree attrezzate per giochi. C’è anche il “geboortebos”, il boschetto dei neonati.

Foto © StadGent

Non che ora sia stato aperto alle auto, ci mancherebbe: sarebbe una contraddizione, nella città del mobiliteitsplan. Ma di sicuro l’area verde nell’ansa della Schelda non è più la stessa di prima, è divenuta oggi meno selvaggia, meno silenziosa, meno tranquilla: nei weekend primaverili ed estivi viene affollata da ciclisti, coppiette e famigliole a passeggio. Panchine ce ne sono più di prima, ma per la maggior parte sono occupate, e il più delle volte mi tocca continuare a vagare, col mio libro sottobraccio.

Riflessione e raccoglimento non mi riescono dunque più tanto bene, tra i boschi e le paludi del Gentbrugse Meersen e, facendo eco a Rousseau, posso dire di non “sentirmi più tanto me stesso” nella folla del weekend sulla Schelda. Ma perlomeno, con tutta la gente che affolla questi vialetti, non mi manca la materia prima per le mie considerazioni da sociologo dilettante. Osservo le persone e annoto, guardo, ascolto e annoto. Ma sempre camminando.

Grazie, Gent!


© Louis Petrella

Marzo 2018

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