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Italiani e crisi

Aggiornamento: 17 gen 2020

Be’, il titolo è forse un po’ vago. Mai come oggi si assiste, non solo in Italia ma un po’ ovunque nel mondo, a crisi epocali: l’intera Europa, coi suoi problemi economici e sociali, il Medio Oriente, l’Africa, l’America Latina, gli Stati Uniti, stanno un po’ tutti vivendo un periodo piuttosto turbolento. Tra le regioni più stabili di questi tempi troviamo forse la Cina, che sta di fatto giocando un ruolo di paciere e garante degli equilibri mondiali. E nella lingua cinese il termine “crisi” si traduce con “wēijī”, scritto coi due caratteri “wēi” (危) e “” (機).

Ciascuno di questi due caratteri ha un proprio significato. Wēi () significa "pericolo” o “pericoloso”, mentre (機) è spesso tradotto in "opportunità", ma ha in realtà un significato più simile a “momento cruciale”, “punto cruciale”, quindi “momento in cui cambia o inizia qualcosa”; ma in combinazione con huì (会) forma la parola jīhuì (機) che significa, appunto, "opportunità".

Possiamo pertanto dedurre che nella cultura cinese una crisi viene vista come un’opportunità di cambiamento e svolta, in risposta a un pericolo. Un concetto suggestivo, seducente, che ha trovato spesso conferma, soprattutto in particolari momenti storici. E non solo in Cina.


L’Italia è uno di quei luoghi dove questa relazione tra crisi, pericolo e opportunità di cambiamento è stata – ed è tuttora – molto evidente: il nostro Paese non si smuove, non fa passi avanti, se non ne è costretto da qualche crisi, da qualche pericolo imminente.

Gli italiani sono (quasi) sempre orgogliosi della loro italianità, ma lo sono molto di più in occasione di drammi nazionali. La routine quotidiana non gli si addice, servono sfide impossibili, eventi straordinari, drammi, come alluvioni o terremoti, per tirar fuori il meglio di sé. L’abbiamo purtroppo constatato con gli avvenimenti di cronaca dei mesi scorsi, le continue scosse sismiche, le abbondanti nevicate, le valanghe… Si è abusato di termini come “eroi”, “grandi”, “eccezionali”, a proposito dei Vigili del Fuoco e della Protezione Civile. Noi italiani siamo in effetti “eccezionali” quando dobbiamo essere “eroici” per ovviare ai disastri, ma ahimé troppo spesso inetti prima, nel prevenirli. Bravi nelle difficoltà, ma molto superficiali nelle situazioni di ordinaria amministrazione.

E ciò non vale solo per le calamità naturali: lo stesso accade in molti aspetti della vita quotidiana, anche in quelli più frivoli. La nazionale di calcio, per esempio, è capace di “grandi” imprese in condizioni difficili, contro le squadre più forti, contro i pronostici sfavorevoli. Ma quando siamo favoriti ci sciogliamo, perdiamo di fronte ai deboli, alle Coree di turno…

Preferiamo cavarci di impaccio nelle situazioni disperate, anziché svolgere il nostro compito quotidiano a regola d’arte, per evitare problemi.


Non la definirei una coincidenza il fatto che molte opere pubbliche in Italia, anche quando approvate e pianificate da anni, accumulino sempre enormi ritardi e, in prossimità della scadenza, si trasformino in emergenze, in opere a regime straordinario, per accelerare e poter consegnare in tempo i lavori. È accaduto con i cantieri per il vertice del G8 nel 2009, per i campionati mondiali di nuoto dello stesso anno, per l’Expo di Milano del 2015 e in tante altre occasioni.

In Italia si preferisce lavorare in emergenza piuttosto che in regime normale. Anche perché così si possono aggirare i regolamenti col beneplacito di chi deve controllare, si possono trovare scorciatoie, chiudendo un occhio (o entrambi) su qualche irregolarità, magari facendo la cresta sui costi… In nome delle emergenze saltano tutte le regole, e alla fine si diventa tutti eroi per la missione compiuta.

Anche quando rispettate, le regole sono spesso interpretate in maniera creativa e considerate, prima ancora che oppressive, noiose: sfidare le norme è un modo per renderle interessanti. Ennio Flaiano diceva che gli italiani hanno un solo vero nemico: l’arbitro di calcio, perché è l’unico che emette giudizi immediati e fa rispettare le regole, senza troppe discussioni.

Già, gli italiani… Ma chi sono, chi siamo noi italiani? Possiamo generalizzare, siamo davvero tutti uguali? E poi, come e quando è nato il concetto di Italia e di “italiani”?

Tornando ai cinesi, possiamo dire che anche il concetto di Italia e di italiani, dopotutto, nasce da una crisi, si è anzi formato e consolidato nel tempo in risposta a diverse crisi avvenute in diverse epoche storiche.

Sappiamo che l’Italia, in quanto Stato unitario, esiste soltanto da un secolo e mezzo, dal 1861 per la precisione. Ma il nome "Italia" è molto più antico. Sembra che derivi da ἰταλοι, italoi, termine con il quale i greci chiamavano i Vituli, una popolazione che abitava nella punta estrema della nostra penisola, nell’attuale Calabria, e che doveva il suo nome all’immagine di un vitello (vitulus, in latino) che adorava. Il nome italoi significa quindi “abitanti della terra dei vitelli”. Adottato successivamente dai romani, il termine italoi e poi italico fu gradualmente sostituito da quello di italiano solo nel basso Medioevo (dopo il Mille).

Fino al V secolo avanti Cristo, con “Italia” si indicò solo la Calabria, ma quando Roma a poco a poco iniziò a dominare la penisola e a promuovere l’integrazione etnica e culturale, diffondendo cultura, lingua e valori comuni, il nome Italia fu esteso al resto del Paese. Uno dei maggiori fattori di questa “italianizzazione” fu lo spostamento volontario di popolazioni da un capo all'altro della Penisola, ma anche la graduale concessione da parte di Roma della cittadinanza a tutti i popoli italici.

Col processo di unificazione culturale e amministrativa, Roma creò le fondamenta del popolo italiano e della sua identità. Identità geografica, culturale ma anche linguistica, con i diversi idiomi locali livellati dal latino, che era utilizzato dalle classi più colte e dalla burocrazia centrale.

Ma con la caduta dell’impero romano d’Occidente la penisola si risvegliò all’alba dell’anno Mille parlando una nuova lingua, anzi tante nuove lingue nate dalla trasformazione del latino nelle parlate locali del popolo, durante quel mezzo millennio di crisi profonda, conosciuto col nome di “secoli bui”. Cinque secoli contrassegnati da invasioni barbariche, anarchia, abbandono delle campagne, declino del commercio, calo demografico, durante i quali l’antica società romana si trasformò nella nuova società italica.

Si può quindi collocare intorno all’anno Mille la nascita del popolo italiano, popolo che in quei secoli linguisticamente si è ormai sufficientemente diversificato dalla lingua antica dei latini. L’opportunità della sua nascita scaturì dalla grave crisi della fine dell’unità politica, spezzata dall'invasione longobarda. L'Italia venne divisa in due grandi aree di influenza: quella longobarda (il Nord-Ovest tra le Alpi e la Toscana) e quella bizantina, che comprendeva il Nord-Est e il Centro-Sud. Sia i Longobardi che i Bizantini furono incapaci di costruire in Italia un embrione di nazionalità, come era accaduto in Gallia a opera dei Franchi. Questa divisione si protrasse per circa tredici secoli ed ebbe termine solo nella seconda metà dell'Ottocento.


Eppure, culturalmente l'Italia fu forse la più precoce fra le moderne nazioni europee e il periodo tra il Duecento e il Trecento fu un momento cruciale della sua formazione: la grande fioritura letteraria (Dante, Petrarca e Boccaccio), artistica e giuridica dell'epoca, insieme al primo tentativo di creazione di uno Stato moderno (da parte di Federico II) contribuirono al processo di formazione della nazione italiana.

Nel Medioevo si affermò poi nell’Italia centrale un forte Stato della Chiesa, che si impose grazie all'energia e alla volontà di papa Innocenzo III. Nella sua storia millenaria, contrassegnata da momenti di decadenza alternati a periodi di splendore, la Chiesa Romana ha svolto in Italia una funzione di ostacolo alla riunificazione politica degli italiani, quelli del Nord e quelli del Sud, ma anche di centralità politica e culturale in ambito europeo, e di istituzione che più di ogni altra ha condizionato la vita e il costume degli italiani.

Ha infatti avuto grande influenza sul popolo italiano, nel corso della sua storia, il sistema di valori cristiani trasmesso dalla Chiesa di Roma. Nei Musei Vaticani è possibile visitare un lungo corridoio i cui muri riportano le mappe di tutte le principali regioni e città italiane dalle Alpi fino alla Sicilia, commissionate da Papa Gregorio XIII (quello del calendario che tuttora usiamo). Le carte geografiche del Vaticano sono state concepite con l'intenzione di raffigurare tutte le terre e i luoghi dell'Italia, perché il papa regnante era italiano. Non ci sono confini politici sulle mappe, tra le regioni di quella che il Papa e i suoi contemporanei consideravano la propria terra, anche se politicamente divisa. Non è dunque vero che l'Italia intesa come nazione sia un concetto costruito a tavolino nell'Ottocento e poi imposto con la forza. La Galleria delle Mappe non è solo la testimonianza di com’era la Penisola alla fine del Cinquecento, ma anche di come il sentimento di italianità sia molto più antico del Risorgimento.

Risorgimento che nacque anch’esso dalla crisi dell’occupazione straniera, un processo storico che iniziò dopo Napoleone e terminò con la presa di Roma del 1870, quando la maggior parte d'Italia riacquistò la propria indipendenza sotto la monarchia dei Savoia e si riunificò politicamente, dopo circa tredici secoli.

In quegli anni iniziò anche a divulgarsi la lingua italiana, fino ad allora parlata e scritta solo dalle classi colte (l’aristocrazia, la borghesia e gli intellettuali). L'affermazione dell'italiano fu tuttavia lenta, dal momento che dovette scontrarsi con la scarsa mobilità delle persone, il basso livello di scolarizzazione e il radicamento dei dialetti e degli idiomi regionali parlati prima dell’unità.

Lo scorso 28 aprile il Caffé ha ospitato un’interessantissima conferenza su “l’Italia dei Dialetti” tenuta da Luca Di Dio, della scuola Edulingua: una godibile storia parallela della lingua italiana e dei dialetti parlati nello Stivale. Tra quanto brillantemente descritto e “cantato” da Luca Di Dio in quell’occasione, vorrei solo ricordare che i dialetti, anche dopo l’unità d’Italia, sono restati a lungo l’unico veicolo di comunicazione per la stragrande maggioranza degli italiani, come ricorda anche la celebre frase “Fatta l’Italia, ora bisogna fare gli Italiani” attribuita a Massimo D’Azeglio, uno dei protagonisti dell’unificazione del 1861. È logico dunque che, non potendo comunicare tra loro, gli italiani non si siano sentiti un unico popolo, una singola nazione, almeno finché l’obbligo scolastico dapprima (istituito solo nel 1923) e la diffusione di radio e televisione poi (soprattutto dagli anni ’50) non allargarono l’uso dell’italiano agli strati più popolari, consentendo così di comunicare in un’unica lingua nazionale.


Ma torniamo alla nostra domanda, chi siamo noi italiani? Oltre all’amore per la pizza, per la nazionale azzurra e per la mamma, cos’altro ci accomuna? Nonostante il vecchio stereotipo d’Oltreoceano, che ci vede tutti bassi, coi capelli scuri e con i baffi, in realtà la popolazione italiana è molto variegata entro e tra le varie regioni. Gli italiani non sono accomunati da particolari caratteristiche fisiche, anche a causa delle diverse dominazioni che si sono succedute nel Paese. Il principale elemento che unisce la maggior parte degli italiani è l’eredità romano-latina, testimoniata dalle opere di letterati, intellettuali e studiosi italiani a partire dal XIII secolo. Dunque non siamo tutti uguali, siamo assimilati più che altro dalla sola cultura. Se questa non viene coltivata e tenuta viva, se le nostre radici storiche vengono smarrite, rischiamo dunque la disgregazione sociale. Noi italiani, come i tedeschi, già prima dell'unità politica eravamo una nazione puramente culturale, fondata su fattori come lingua, tradizioni, religione, memorie storiche, anziché su etnìe (come Ebrei o Persiani), o su istituzioni politiche (come gli Stati Uniti d'America.)

Ecco, appunto, gli Stati Uniti… La recente elezione del nuovo inquilino della Casa Bianca, che sta di fatto riportando l’America all’isolazionismo e al protezionismo anteguerra, nonché le crisi internazionali citate all’inizio, tra terrorismo, nazionalismo, profughi in fuga, muri innalzati contro gli stranieri, sono tutti segnali che sembrano riportarci indietro a periodi più oscuri della Storia, come i “secoli bui” su cui ci siamo già soffermati. Allora erano i “barbari” che invadevano l’Impero Romano, oggi sono i rifugiati che scappano dalle loro terre martoriate, alla ricerca di nuove opportunità nell’Occidente. Oggi come allora, imperi e istituzioni che sembravano inossidabili rischiano di crollare o di stravolgersi.


Già ci si domanda se l’isolamento americano non stia offrendo una nuova opportunità di leadership mondiale proprio alla Cina, o se la distanza tra Europa e Stati Uniti, evidenziata nei recenti vertici della NATO e del G7, non possa alla fine rivelarsi una grande opportunità di crescita e di maturazione per l’Unione Europea, che dovrà imparare a essere più forte e a camminare da sola, senza l’aiuto di “mamma” America. Lo stesso si può dire per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione, che potrebbe togliere il “freno a mano” ad una maggiore integrazione europea, non solo economica ma anche e soprattutto sociale. Un riassetto delle forze in campo di cui anche l’Italia, protagonista nel salvataggio e nell’accoglienza di profughi e rifugiati, potrebbe beneficiare.

Roma, dopo il crollo dell’Impero, si è riciclata come capitale mondiale del Cristianesimo e dell’arte. A Romolo e Remo sono succeduti consoli, triumviri, senatori, imperatori, papi, ministri, sindaci, capitani, e Roma resta ancora e sempre Caput Mundi. Il concetto cinese, che ogni crisi è un’opportunità di cambiamento, è valido ovunque ma soprattutto in Italia dove – per dirla ancora con Flaiano – la situazione, anche quando è grave, non è mai seria. Gli italiani corrono sempre in soccorso dei vincitori e, male che vada, sanno comunque trasformarsi in eroi.


© Louis Petrella

Giugno 2017

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