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Immagine del redattoreLouis Petrella

La babele del migrante

“Penitenziagite! La mortz est super nos! Prega che vene lo papa santo a liberar nos a malo de todas le peccata!” Così Umberto Eco, nel suo “Nome della Rosa”, faceva parlare Salvatore, uno dei personaggi più inquietanti del suo romanzo. Adso da Melk, la voce narrante di Eco, spiegava che genere di lingua parlasse Salvatore: “non era il latino, non era il volgare di quelle terre, né altro volgare che mai avessi udito. (…) Si era inventata una lingua propria che usava tracce delle lingue con cui era entrato in contatto. E una volta pensai che la sua fosse (…) la lingua babelica del primo giorno, dopo il castigo divino”.

Ne segue un’intera pagina del “Nome della Rosa” in cui Eco racconta di come Salvatore mescolasse le lingue e, pur venendo sempre capito da chi ascoltava, di come creasse frasi prendendo le parole ora da una lingua ora dall’altra, a seconda della situazione e delle cose che voleva dire. Parlava di un cibo usando parole del Paese dove aveva assaggiato quel cibo, esprimeva una gioia usando termini ascoltati da chi aveva provato la stessa gioia…


Pur senza ambire ai livelli letterari di Umberto Eco, né pretendendo confronti con la figura di Salvatore, possiamo comunque affermare che un simile fenomeno di mescolanza linguistica si riscontra spesso nelle famiglie emigrate di prima generazione.

L’esempio che conosco meglio, di cui mi è pertanto più facile parlare, è quello della mia famiglia. Nella cui torre di Babele si incrociano tre idiomi – italiano, polacco e nederlandese – appartenenti a tre diverse famiglie linguistiche, rispettivamente la neolatina, la slava e la germanica.

Già trentenni, mia moglie e io ci siamo trasferiti a Gent vent’anni fa, arrivando dall’Italia dove a sua volta mia moglie si era stabilita solo da un anno, proveniente dalla natía Polonia. Era logico dunque che portassimo con noi – assieme ai vestiti e agli spazzolini da denti – anche tutto il nostro bagaglio linguistico, creatosi e accumulatosi nell’arco delle nostre infanzie e giovinezze. Dopo aver studiato le nostre reciproche lingue materne (con molti maggiori successi per mia moglie con l’italiano, che per me col polacco…) abbiamo quindi intrapreso lo studio del fiammingo, nel cui ambiente culturale ci apprestavamo a vivere. Il fatto che tutti nelle Fiandre parlino almeno l’inglese o il francese non ci ha certo aiutati ad assorbire la lingua locale. Ma l’arrivo dei figli ha cambiato molto, specialmente con l’inizio della scuola. Termini come “ouderscontact”, “huiswerk”, “boekentas” sono entrati poco a poco nel nostro lessico quotidiano, incastrandosi nelle nostre frasi in italiano, che restava comunque la lingua “franca” di famiglia.


Ma intanto mia moglie aveva già cominciato a rispolverare dalla sua infanzia polacca le parole che potevano adattarsi alla sua nuova condizione di madre. Cosí ad esempio termini come “sukieneczka”, “rajstopki”, “spodenki”, “spódniczka”, “kalesonki” (riferiti all’abbigliamento, soprattutto infantile) si erano stabilite nel suo lessico e nei suoi dialoghi coi figli. Senza contare i termini quasi intraducibili, come quelli riferiti alla cucina, con nomi di specialità polacche e italiane che condivano e insaporivano i nostri dialoghi culinari. I popolari e internazionali “spaghetti” “pizza” “tiramisù” “carbonara” certo, ma anche “szyneczka” “jajko sadzone” “kiełbasa”…

Nel corso degli anni, dunque, ne è nata una lingua per certi versi simile a quella parlata da Salvatore, un idioma specifico che mescola termini polacchi e fiamminghi spesso in una stessa frase italiana. Ogni giorno potrebbe capitarci di pronunciare espressioni del tipo: “stamattina metti i kalesonki perché fa freddo e non dimenticarti il boekentas”, oppure “quando hai finito il tuo huiswerk vieni a cena, ti ho preparato un jajko sadzone”.

A volte persino la costruzione della frase viene stravolta, specialmente quando interi modi di dire vengono presi dal fiammingo, il che succede soprattutto ai miei figli. Ai quali capita per esempio di dire che “il colore delle scarpe non fa passen col vestito”, non ricordando la relativa espressione in italiano, “abbinarsi”, “combinarsi con…”. Oppure “non posso chiamare il mio amico, perché non ha il telefonino mee”, che è più veloce di “con sé”.

Peraltro, questo fenomeno - causato dall’italianità in terra straniera - non mi era personalmente del tutto nuovo. Si è trattato piuttosto di un “déjà vu” (tanto per restare nella mescolanza linguistica…) che mi ha riportato indietro alla prima infanzia. Al tempo dei miei primi anni a Detroit, dove nacqui da genitori italiani immigrati negli States anni prima. Tutti i cinque fratelli di mio padre si erano trasferiti a Detroit dal loro paese natale nel Molise e in famiglia si masticava un gergo italo-americano, stratificatosi negli anni tra le strade della Little-Italy di Detroit. Cosí nelle nostre conversazioni in italiano si inseriva qua e là qualche termine inglese, originale o italianizzato. “Alla prima gas-station devo fare benzina”, la parola “distributore” l’ho imparata solo molti anni dopo. Ma il peggio (o il meglio?) è che storpiavamo e italianizzavamo molti vocaboli inglesi, per farli suonare meglio nella frase. Complice anche la semplicità dell’inglese, che usa brevi termini per concetti che in italiano richiedono due o tre parole. Un sacchetto di plastica per noi era una bega, dall’inglese “bag”. E un nastro adesivo era molto più sinteticamente una teppa (“tape”). Poi, bene o male il mio italiano si è risistemato un po’, una volta in Italia. Ma tutti gli altri parenti sono rimasti negli States e, mentre cugini e nipoti ormai non conoscono nemmeno più una parola di italiano, negli zii qualcosa è rimasto, una qualche reminiscenza soprattutto del vecchio dialetto molisano. L’ultima volta che l’ho visto, mio zio Antonio (uncle Tony) mi raccontava dei suoi ricordi di gioventù e di come si stesse bene nell’Italia di quell’epoca: “Quando I was all’Italia, even li contadini stevano good”…

Ho parlato delle mie esperienze, ma immagino che il fenomeno sia condiviso dalla maggior parte degli espatriati, soprattutto di recente migrazione. Chissà quanti, tra gli italiani di Gent che stanno leggendo, mescolano fiammingo e italiano nelle conversazioni quotidiane? Il criterio potrebbe essere: italiano a casa e fiammingo fuori. Potrebbe sembrare banale e naturale, ma a pensarci bene non sempre lo è. Soprattutto per chi ha figli. I miei figli parlano in fiammingo con amici e coetanei, ma in italiano tra di loro. Con me – ovviamente – in italiano, ma il problema mi si pone soprattutto quando li aiuto a studiare e a fare i compiti (anzi, l’huiswerk). Mi viene naturale usare l’italiano, ma loro la lezione devono conoscerla in fiammingo e spesso va a finire che dopo il ripasso ho imparato più io di “nederlands” che loro di “geschiedenis” o “wiskunde”. L’importante è che vadano bene a scuola e non perdano la voglia di studiare, altrimenti diventerei un padre severo e in un impeto di rabbia potrei gridare loro: “Penitenziagite!”


©Louis Petrella

Dicembre 2013

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